Campbell e il suo “eroe”

Lindau ripropone l’opera dello studioso di miti e di religioni comparate

“Il sistema per diventare uomini è imparare a riconoscere i lineamenti di Dio in tutte le meravigliose espressioni del volto dell’uomo”.

l-eroe-dai-mille-volti-bIl lunghissimo lavoro che lo studioso di miti e religioni comparate Joseph Campbell (1904-1967) aveva condotto sull’eroe e le sue leggende, oggi riproposto nella nostra lingua da Lindau in “L’eroe dai mille volti”, un ponderoso volume di 454 pagine ricco di tavole, rimandi bibliografici e un articolato sistema d’indici e didascalie, giunge al termine. Nelle ultime pagine il celebre studioso abbandona per una volta l’analisi dei miti delle origini, l’elencazione delle sterminate fonti e si pone di fronte al lettore suo contemporaneo, quello del 1949. Quelle parole suonano profetiche, perché colgono l’emergere di alcune strutture psichiche profonde (Campbell era anche psicologo, attento soprattutto alle ricerche di Jung) preoccupanti per il futuro dell’umanità. E non solo perché c’erano state Hiroshima, Nagasaki e l’Olocausto, ma perché l’autore coglieva l’affiorare di un pensiero in grado di corrodere lentamente le strutture mentali dell’umanità.

Già negli anni Quaranta del Novecento il tramonto della comunità cementata dalla religione e dal lavoro comune mandava inquietanti bagliori: agli animi più attenti non apparivano le magnifiche e progressive sorti di un’umanità libera e gaudente, ma iniziavano a manifestarsi situazioni che poi sarebbero diventate cronaca di solitudine, vuoto, perdita, corsa verso il nulla.

E sì che Campbell non era tenero verso le religioni rivelate, verso le quali manifesta talvolta momenti di asprezza non sempre pienamente motivata. Ma lo studioso aveva in mente la religiosità alla base delle sue manifestazioni e divisioni, che egli vede come facce di una medesima totalità. Perdere il contatto con il divino che è anche in noi, oltre che fuori di noi, per Campbell significa perdere di fatto la propria umanità. L’eroe stesso, indagato in questa monumentale opera, è attraversato, a qualsiasi latitudine, da una appartenenza radicale alla sfera religiosa. La preveggenza dello studioso (che gli derivava anche dalla recente e disastrosa esperienza delle società di massa novecentesche) va oltre il suo presente: “Non è la società che deve guidare e salvare l’eroe, ma precisamente il contrario. E così ognuno di noi partecipa alla prova suprema – porta la croce del redentore – non nei momenti gloriosi delle grandi vittorie della sua tribù, ma nei silenzi della sua disperazione”. Sembra sentir echeggiare le voci dei personaggi dolenti nati da scrittori che leggevano i segni dei tempi “liberi” e “moderni”, individuandone le falle e le contraddizioni, come la Woolf, Eliot, Joyce, Pirandello, Camus, Kafka.

Vi sono, visti a più di sessant’anni di distanza, alcuni elementi critici, che derivano anche, e lo stesso Campbell ne è cosciente nell’introduzione, dalla stessa mole del lavoro: ad esempio, l’insistenza su temi e documenti spuri o apocrifi, che divengono a volte referenti privilegiati più dei documenti riconosciuti o primari, come nel caso di papa Gregorio Magno: qui lo studioso non spiega bene che quella storia sulla nascita incestuosa del santo pontefice appartiene a manoscritti mai riconosciuti come fonti ufficiali, frutto di interpolazioni popolari o in polemica contro alcuni eretici che sostenevano la liceità del matrimonio tra consanguinei. La commistione acritica tra racconti con fondamenti di verità storica e leggende incontrollabili, probabilmente ricalcate su miti greci, non rende giustizia alla storicità di eventi e personaggi, che è una questione (non evidentemente l’unica, essendo la base prima la fede) assai importante per le religioni rivelate.

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