Beccati a scrivere

Un laboratorio con giovani detenuti a Rebibbia

“Dare un senso scritto e ragionato ai pensieri, alle parole”. È con questo intento che la giornalista Claudia Farallo da oltre un anno coordina un laboratorio di scrittura con i giovani detenuti dell’Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze del carcere romano di Rebibbia. Dal laboratorio è nata la rivista “Beccati a scrivere”, che sarà presentata domani presso la “Terza casa” circondariale del carcere romano. Protagonisti giovani redattori, che hanno scelto la scrittura per “realizzare il loro percorso terapeutico”. Marta Fallani, per il Sir, ne ha parlato con Claudia Farallo.

Come è nata l’iniziativa?

L’iniziativa è nata circa un anno e mezzo fa per volere dei ragazzi, sono loro che hanno chiesto di poter fare un giornale. Hanno dimostrato che l’impegno c’era e così l’Istituto ha deciso di farne una cosa professionale. Sono stata chiamata a coordinare il progetto, abbiamo fondato un’associazione e registrato la testata in Tribunale. I giovani coinvolti hanno dai 18 ai 35 anni, con un residuo di pena inferiore ai 6 anni. L’intento, per chi è fuori, è quello di sensibilizzare alla realtà del carcere, di cui si tende a parlare solo quando succedono cose brutte, come i suicidi. Per i detenuti, invece, è una possibilità per crescere, e l’Istituto ha capito questa esigenza e ha appoggiato l’iniziativa.

Quali sono stati i temi trattati?

Questo primo numero si apre con una riflessione sul carcere, con un intervento del garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ma la volontà è di parlare d’altro, di quello che fanno i detenuti. C’è un articolo, infatti, che parla della radio, il medium più utilizzato in carcere, il compagno di molte giornate. Una parte è dedicata al commento sulle attività svolte all’interno dell’istituto, come il teatro, lo sport, per dare valore e visibilità al ‘fuori’ a quello che si fa dentro. La sezione forse più intensa della rivista è però quella che dà spazio all’analisi personale: è la parte in cui si dà un volto a queste storie, alle vite dei detenuti spesso vittime di stereotipi. È una sezione che ci fa vedere gli uomini, le persone che sono in carcere. Nella rivista si parla anche di tossicodipendenze e di prevenzione, grazie al contributo della comunità terapeutica Villa Maraini. Parliamo di quali sono le zone a rischio a Roma, di come si diventa dipendente, e soprattutto, grazie all’aiuto di uno psicologo, si offrono consigli ed esercizi pratici per combattere la dipendenza, non solo per chi è detenuto ma anche per chi è fuori.

A chi è rivolta la rivista?

Le 1.500 copie saranno distribuite nelle carceri del Lazio, ma anche nelle università, perché abbiamo attivato una collaborazione con il Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale della ‘Sapienza’ di Roma. I referenti principali della rivista sono infatti proprio i giovani, perché sono loro gli autori, giovani che hanno avuto una vita diversa, che hanno fatto percorsi particolari, ma la cui esistenza ci riguarda perché le loro scelte investono molti spazi della nostra società, quindi le condividiamo. Sono esperienze di vita, storie dove credo che ognuno di noi possa trovare se stesso o una persona vicina.

Che ruolo può avere la scrittura nel percorso riabilitativo di questi ragazzi?

La scrittura è un modo per imparare a esprimere le emozioni. Mettersi in un testo significa avere uno sguardo su se stessi e, quindi, sugli altri, il che provoca delle discussioni in cui ciascuno scopre come esprimersi. In questo senso credo che la scrittura sia un medium particolare. La rivista nasce dall’esigenza pratica di poter viaggiare liberamente fuori dal carcere, raggiungere le persone, ma anche dall’esigenza di riflettere. E la scrittura è, a mio avviso, la forma di esternazione più riflessiva rispetto per esempio alla radio o al video, che richiedono sempre una certa dose d’improvvisazione. La scrittura più di altri pone la parola nero su bianco, permette di riflettere, di modificare, dà la possibilità di crescere sullo stesso testo, ma soprattutto è prova tangibile e ragionata di quello che si è detto, e tutti possono vederlo e toccarlo.

Quali risultati ha potuto cogliere in questi mesi di lavoro?

Posso testimoniare che ci sono stati enormi cambiamenti. In un anno ho capito che a volte basta veramente poco per far scattare qualcosa in una persona. Spesso un semplice incoraggiamento basta per trovare il coraggio di fare cambiamenti più importanti. Ho visto cambiamenti di atteggiamento, nel porsi con gli altri e con se stessi, perché questa iniziativa ha tirato fuori la loro personalità. I giovani redattori sono ragazzi che hanno bisogno di avere coraggio e fiducia, e di dare un senso scritto, ragionato alle loro parole e ai loro pensieri. Il giornale è un’impronta di loro stessi, perché si sono voluti esporre, mettendoci letteralmente la faccia, con l’intento di abbattere gli stereotipi.