Scienza

Tracce di coscienza

Occorre stabilire con la massima accuratezza (nei limiti del possibile) se il paziente si trovi in uno "stato di minima coscienza", con una certa probabilità di recupero, oppure se sia colpito da sindrome di veglia aresponsiva.

È fondamentale per i medici neurologi – lo si intuisce immediatamente – riuscire a stabilire se un paziente che ha subito, per varie cause, importanti lesioni cerebrali, si trovi o no in uno stato di “coscienza” (veglia e consapevolezza). Soprattutto quando si tratta di condizioni patologiche che perdurano nel tempo (coma, “stato vegetativo”, “stato di minima coscienza”), ponendo anche il problema della prognosi: il paziente potrà recuperare la propria relazione consapevole con se stesso e con l’ambiente che lo circonda? Entro quale periodo è ragionevole nutrire questa speranza? Interrogativi essenziali per riuscire a prendersi cura in modo corretto e proficuo, tanto a livello pubblico che privato, delle persone in queste condizioni.

Solitamente, la diagnosi di stato di coscienza è ancora fatta con un semplice esame al capezzale del paziente, verificando le sue capacità attuali di comunicare o rispondere in modo volontario e correlato agli stimoli esterni. Una diagnosi particolarmente difficile nei casi “limite” (circa il 40% del totale), ovvero in pazienti con segni ambigui, soggetti non lucidi ma non comatosi, i cui movimenti e suoni casuali possono somigliare molto a quelli intenzionali, mentre la loro consapevolezza appare altalenante. Occorre dunque stabilire con la massima accuratezza (nei limiti del possibile) se il paziente si trovi in uno “stato di minima coscienza”, con una certa probabilità di recupero, oppure se sia colpito da sindrome di veglia aresponsiva (comunemente detto “stato vegetativo”), con azioni ritenute casuali e prive di intenzionalità, situazione in cui sembra ben poca la speranza di un recupero.

In questo scenario, un recente studio (pubblicato sulla rivista “Brain”), realizzato da un gruppo di ricercatori dell’ospedale Pitié-Salpêtrière di Parigi, si propone di offrire ai medici un piccolo aiuto concreto. Esso descrive in dettaglio un algoritmo di apprendimento automatico – denominato DOC-Forest -, capace di distinguere la sindrome di veglia aresponsiva dallo stato di minima coscienza, mediante dei semplici EEG (elettroencefalogramma). Adottandolo nella pratica clinica – affermano gli autori – esso ridurrebbe la necessità di affidarsi a congetture per formulare la diagnosi e probabilmente funzionerebbe meglio della maggior parte dei medici umani.

Da dove nasce questa intuizione? L’idea di scrutare il cervello alla ricerca di tracce di coscienza non è una novità. Per decenni, i ricercatori hanno vagliato la possibilità di usare tecniche di scansione del cervello come la PET (tomografia ad emissione di positroni) e la fMRI (risonanza magnetica funzionale) per individuare i confini bio-fisiologici della coscienza. Queste scansioni, però, non sono disponibili in tutti gli ospedali; in più sono costose, soggette ad artefatti e difficili da interpretare.

Sicuramente più accessibile risulta l’elettroencefalografia, essendo sufficienti dei sensori elettrici collocati sul cuoio capelluto del paziente per rilevarne l’attività cerebrale attraverso il cranio. L’EEG, dunque, registra l’attività cerebrale sotto forma di onde generate da un numero sufficiente di neuroni che si attivano all’unisono. In una persona sana, queste onde hanno frequenze prevedibili. Dopo una lesione cerebrale, il loro schema è meno prevedibile.
In questo nuovo studio, i ricercatori hanno effettuato registrazioni EEG su 268 pazienti con diagnosi di sindrome di veglia aresponsiva o di stato di minima coscienza, prima e durante un compito di ascolto progettato per rilevare l’elaborazione cosciente dei suoni. Poi, decine di aspetti dei dati ottenuti sono stati inseriti nel DOC-Forest, che ha confermato come diagnosi corretta circa 3 casi su 4.

Va tenuto presente che i dati EEG sono complessi e hanno molte dimensioni – tempo, frequenza, condizioni di prova, posizione dei sensori, e via discorrendo – che si sviluppano sul monitor schermata dopo schermata. In genere, i ricercatori si concentrano su una manciata di caratteristiche di facile interpretazione, per esempio la comparsa di una specifica onda cerebrale durante l’attività di ascolto. Questa focalizzazione sull’interpretazione esclude però aspetti potenzialmente importanti dei dati. L’apprendimento automatico non ha questo pregiudizio umano a favore dell’interpretabilità e della comunicabilità. Esso si concentra solo sulla classificazione corretta dei dati, che è tutto ciò che serve in questo caso.

Dunque, se usato nella pratica clinica, DOC-Forest potrebbe effettivamente essere uno strumento utile per un neurologo alle prime armi, scandagliando le sinuose tracce elettroencefalografiche e fornendo le probabilità che il paziente abbia un certo livello di coscienza, sfuggito al medico inesperto durante i test al capezzale.
Ma sarebbe troppo pretendere che una fredda macchina calcolatrice possa sostituire del tutto l’elemento di valutazione umana, soprattutto in una misurazione così delicata e complessa quale lo stato di coscienza della persona.