Cultura e costume

Tra umane attese e avvento divino

Avvento vuol dire attendere qualcosa che è accaduto una volta storicamente ma che continua a riempire di senso ogni cosa dopo essersi volontariamente sottoposto alle leggi del tempo e dello spazio

“Io dormo, ma il mio cuore veglia”: in tutta la Scrittura, sia nell’Antico come nel Nuovo Testamento (qui siamo nel Cantico dei Cantici), emerge la dimensione dell’attesa, dimensione che si è lentamente ma profondamente radicata nella letteratura non solo religiosa; talvolta celandosi dietro l’opposta sponda della negazione e dell’assenza, come accade nel Beckett di “Aspettando Godot”, 1952, in cui due personaggi attendono l’arrivo di un signore che di giorno in giorno manda a dire che non potrà venire, ma che sicuramente si farà vedere il giorno dopo, in un rimando costante del senso, delle sicurezze d’occidente, o anche della pretesa di trovare Dio come e quando l’uomo razionale vuole e dispone. Cui fa da contraltare l’attesa del monaco Thomas Merton espressa soprattutto in una lirica dedicata proprio all’Avvento in cui gli umani intelletti “sono più tranquilli delle greggi/ che pascolano alla luce del sole”.

Il fatto è che nel mondo laico l’Avvento si risolve in una spasmodica attesa che si carica di volta in volta di aspettative d’amore, di ricchezza, di felicità qui ed ora. Anche se con sfumature che, nel caso di Marcel Proust e della sua “Ricerca del tempo perduto”, diventano coscienza dell’inutilità del rimpianto e dell’attesa di ripercorrere sempre le stesse strade e di rivedere le medesime persone di tanto tempo fa. Il tempo trascina inesorabilmente ogni cosa umana con sé, lasciando in alcuni la percezione dell’unica persistenza: quella della radice di tutto ciò che vive. Ci è maestro in questo Dante, soprattutto nel Purgatorio, dove sembra di respirare in modo palpabile una stupenda atmosfera di attesa che fonde mirabilmente umano e divino, bellezza vera e speranza.

Qui la consapevolezza della necessità di non rimanere schiavi della dolcezza dei ricordi emerge in tutta la sua struggente forza, come nell’episodio del musico Casella che intona una canzone scritta da Dante stesso, affascinando tutti i presenti, ma con il risultato di far arrabbiare il guardiano del secondo regno, Catone uticense, che ordina a tutti di riprendere il cammino verso la purificazione: il che sarà poco romantico, ma simboleggia la necessità di salvarsi dalla schiavitù del ricordo; un po’ come nel caso della moglie di Lot, che divenne una statua di sale per essersi voltata a guardare indietro, schiava di una nostalgia per ciò che è tramontato ma che avrebbe potuto lasciare posto ad una nuova, feconda vita se non fosse stata accecata dal ricordo di ieri. Anche perché la storia ci presenta lo scenario di ben altre umane attese, quelle delle madri durante le guerre e le deportazioni, o di chi è andato lontano per lavoro, per miseria, per cambiamenti climatici, per lo scatenarsi di lotte fratricide, che si pongono come testimonianza autentica di una speranza di una nuova casa, una nuova storia, una nuova vita. Alcuni hanno narrato laicamente l’attesa di un evento che si allontana nel tempo, come il Buzzati del “Deserto dei Tartari”, 1940, con il tenente Drogo ad aspettarsi da un momento all’altro l’arrivo dei temibili invasori, che non arriveranno mai. Almeno con lui in vita.

Avvento vuol dire invece attendere qualcosa che è accaduto una volta storicamente ma che continua a riempire di senso ogni cosa dopo essersi volontariamente sottoposto alle leggi del tempo e dello spazio. Quello struggente senso di attesa si è annidato nelle pieghe della grande poesia, come nel caso di Eliot che in “Mercoledì delle ceneri” (1930) ricorda “la promessa del verbo non detto e non udito” di redimere il consumarsi del tempo altrimenti attanagliato dal sospetto dell’insensatezza. Perché in fondo è questo il senso vero dell’Avvento: affidare la propria attesa a qualcosa di diverso dai desideri umani, alla ricerca di un senso ultimo e nel ricordo di un evento che ha cambiato il mondo.

dal Sir