Pazienza se la prima domenica di Quaresima i reatini vedranno sfilare i carri di carnevale. Con la crisi che c’è, si può credere che sarà loro comunque facile una certa continenza.
Per molti, in fondo, la città è in quaresima da un bel pezzo. Con la crisi, la disoccupazione, la cassa integrazione, c’è poco da scherzare. Soprattutto se non si vede come uscirne.
Non a caso, oramai, sembriamo permeati da una certa rassegnazione. Ci è come entrata nell’anima: Rieti appare sempre più triste e grigia. Si direbbe immersa in una generale sciatteria nelle cose e nei pensieri. Spesso indossa idee usate, consumate, fasulle. Le recupera nei discount culturali dei giornali, della televisione, o della rete.
Per il resto spera solo in quel che viene da fuori. Infatti conosce quasi esclusivamente successi, fatti e intellettuali altrui. E si sacrifica per portarseli in casa mezza giornata. Un bel pezzo di città chiuderebbe addirittura un occhio su certe irregolarità amministrative pur di rimettere in moto i somministratori di cultura. Almeno nella piazzetta ci si poteva illudere di rassomigliare al grosso nome di passaggio. Una finzione che non costava niente, una facile consolazione pagata dal solito mecenate.
Debolezze da cafone ripulito? È possibile. Ma certi miseri trionfalismi, certe evidenti mancanze di misura, di sobrietà, sembrano sintomi di un più intimo male: la mancanza di un’idea di sé, di un proprio ruolo, di un proprio scopo. La cultura è conoscere tanto o tutto? È il numero di libri, conferenze, dibattiti, mostre di cui si dispone? O è piuttosto una questione di identità?
In fondo è su questa che ci misuriamo e misuriamo i nostri incontri. Ma da questo punto di vista sembriamo proprio messi male. Davvero poco di quel che abbiamo o speriamo viene dalla città. Vale per la cultura come per il lavoro, la scuola e le istituzioni.
Un buon esercizio di Quaresima allora, una buona penitenza, potrebbe essere quella di non fuggire più questo deserto desolante. Una volta ammesso di averlo ormai tutt’intorno, potremmo cominciare a riconoscere i miraggi e le vanità dalla poca acqua. Quindi si tratterebbe di attraversarlo. Per quanto faticosa, può essere un’esperienza vivificante. La fame e la sete, le rinunce e gli ostacoli possono aiutare a prendere coscienza.
E non è detto che tornati padroni di noi stessi, non si riesca finalmente a rialzare la testa e darci da fare senza aspettare chissà che cosa.