Rieti, il bilancio e la Sinistra senza fantasia

Facendo la rassegna stampa, questa mattina, può capitare di trasalire per un titolo un po’ brutale: “Il Flavio in gestione ai privati”. Come spiega l’occhiello, “Il Comune valuta l’ipotesi”. Il ragionamento è quello da contabile dell’assessore al bilancio Bigliocchi: “Ogni anno il teatro costa 500mila euro e ne incassa 90mila”. Sembra quasi si voglia suggerire che sì, insomma: avere un bel teatro comunale da lustro, ma in fondo in fondo è uno spreco!

Meglio liberarsene insieme agli asili e ai servizi per gli anziani! Tutte palle al piede delle casse comunali, da affidare a chi invece saprebbe metterle a reddito. Anche se non si capisce perché una cosa che può essere fatta funzionare ragionevolmente bene da un gestore privato, non possa essere altrettanto efficiente in mano pubblica.

Ma lasciamo perdere. Il punto sembra essere un altro. È la sensazione di essere strozzati dalla necessità, di essere ricattati dalla mancanza di alternativa. Le finanze comunali arrancano, e l’unica azione possibile sembra essere la cessione di servizi e gioielli di famiglia al miglior offerente. Va bene tutto, ma quando i servizi saranno definitivamente erogati dai privati, che ce ne faremo del Comune? Ce lo terremo così, giusto per abitudine, tanto per avere qualche poltrona da far occupare?

Si continua a parlare dei mezzi per salvare l’ente dal dissesto, ma non sarebbe prima il caso di discutere degli scopi per cui l’impresa va compiuta? Salvare il Comune facendo in modo che di comune non rimanga quasi più nulla non sembra proprio un buon affare. Specialmente per una sinistra che si è battuta da leoni per l’acqua pubblica. I servizi agli anziani e ai bambini, la scuola, la cultura, il teatro, la biblioteca: non sono anch’essi beni comuni?

Di queste cose nessuno parla. Mentre ci si aspetterebbe che la sfera pubblica, prima di agire, si ponesse e ponesse a tutti qualche domanda: quale futuro dobbiamo costruire? Quale prospettiva è degna di lode? E per quali ragioni, per quale vantaggio collettivo, per quale disegno sociale vanno fatte le scelte?

Facile immaginare che gli uomini nella stanza dei bottoni, chiamati in causa su questi temi, si affrettino a ricondurre tutti al senso della realtà. Risponderebbero che l’eredità del passato, il debito, la situazione contingente non lasciano spazio di manovra. Di fronte alla rigidità dei vincoli non abbiamo alternativa. L’unico futuro è quello dei tagli, delle privatizzazioni, delle esternalizzazioni.

Noi siamo sicuri della buona fede di chi la pensa in questo modo, ma non ci crediamo. Coltiviamo un qualche sospetto critico rispetto a questa specie di dittatura della mancanza di scelta. Ci sembra dipendere da una scarsa capacità di visione politica, da un’incapacità di immaginare il futuro, dall’aver perso di vista, come dicevamo, l’orizzonte dei fini, degli scopi.

A far di conto basta un ragioniere. Tra gli scopi della democrazia ci dovrebbe essere l’aumento dell’equità, della giustizia sociale, delle pari opportunità. Se tenessimo queste cose come ago della bussola, forse ci accorgeremmo pure di quanto le strategie contabilmente vantaggiose per le casse comunali, rischino di riuscire socialmente fallimentari.

E magari scopriremmo un ventaglio di alternative rispetto alla semplice rinuncia a ciò che dovrebbe essere in concreto un Comune. Ci potremmo sorprendere ad inventare soluzioni al momento del tutto insospettate.

L’aumento della sofferenza sociale è sotto gli occhi di tutti. Le ricette filo-liberiste della privatizzazione-esternalizzazione dei servizi pubblici non hanno funzionato né su scala continentale, né su quella nazionale. Non si vede perché dovrebbero avere un esito migliore nella dimensione comunale.

A questo punto sembriamo piuttosto avere un disperato bisogno di idee innovative, sorprendenti, audaci. Avremmo bisogno di uno sforzo d’immaginazione politica e forse anche morale. Il problema è tutto nella misura in cui ne saremo capaci. Di sicuro però un passo avanti lo possiamo fare: cominciare a discuterne.