Un ricordo di Enzo Tarani

Messaggio “E’ morto Tarani”: così ho appreso la notizia, ieri. Un sms di mia moglie, alle 17.09 di una strana giornata di mezzaestate, con un maestrale volgente tramontana tale da far pensare di essere sulla splendida costa smeralda, con quella luce abbacinante che ti resta negli occhi. Morte. Quella parola che, quando la senti, la leggi accanto al nome di chi porti nel cuore, penetra d’improvviso, e ti spezza. Anche Gesù, pensavo, pianse profondamente la morte dell’amico Lazzaro: poi, però, lo fece risorgere. Ma non c’è risurrezione senza morte. E non tutte sono uguali. Enzo, per noi, era “Il” dottore, anzi: “LU dottore”, in quel dialetto da lui così amato e sciorinato in ogni occasione, accompagnato da una grazia ed un’ironia innate, nobilitato dalla cultura classica prima (lui, Varroniano doc dei tempi d’oro) e da quella medica poi.

Chissà, ho pensato in quell’istante, quante volte mi avrà visitato, da bambino. Quante volte avrà appoggiato sul mio petto, sulla mia schiena, quel suo inseparabile stetoscopio. “Francì, fa ddu corpi dde tosse!”: eppoi la diagnosi. Senza analisi. Senza esami. Senza quella che oggi si chiama “medicina difensiva”.

Eppure la memoria va immediata a tre episodi che legano la mia vita a quella di Enzo/medico/uomo/amico in modo indelebile. 1988: a ventidue anni essere catapultato dalle spiagge spagnole dell’atlantico ad un letto del reparto di otorino del “Gemelli” fu un tutt’uno. Una perfida infezione (poi tecnicamente accertata come colesteatoma) era esplosa improvvisa, superficialmente curata e non diagnosticata in sede locale due anni prima. Solo l’innato istinto di una madre (la mia) e la maestria inarrivata del burbero Prof. Maurizi – anche lui reatino in grado di raggiunger le vette della scienza medica – ebbero la meglio sul male. E lui, Enzo, “lu dottore”, che pure non c’entrava nulla e che aveva seguito come amico fraterno di mio padre tutta la vicenda, si sentì quasi responsabile di quanto era accaduto, quasi ad assumersi – uomo d’altri tempi – quella “colpa” che, in quanto relativa alla struttura in cui lavorava, sentiva in parte anche sua.

Eppoi due gesti assolutamente contrapposti, con i miei figli. Si, perché quando non si arrivava a risolvere qualcosa, veniva naturale pensare: “chiamo Enzo”. Giulia, la mia secondogenita, è afflitta a due anni da un febbrone che da cinque giorni non la vuol lasciare. Per il pediatra c’è solo il rocefin. Punture. “Chiamo Enzo”. Risposta: “Ma que è mattu? La ccii! Mo bbengu io a vedella”. Lo ricordo gattonare sul lettone e giocare con lei con il suo stetoscopio sino a conquistarne il cuore: impresa mai riuscita sino a quel momento ad altro pediatra. La curò con l’antibiotico per aerosol.

Quando una malattia incomprensibile aggredisce tuo figlio è come se il tempo si fermasse. Così accadde al mio Ale, dieci anni dopo quell’episodio. “Chiamiamo Enzo”. Arrivò, trafelato e un po’ ciondolante, come lo si era abituato a vedere negli ultimi tempi. Stavolta, però, non aveva nessuna voglia di scherzare. E per la prima volta lo vidi nelle sue vesti di grande medico che ha a cuore solo la salute e la vita del suo paziente: alle nostre titubanze alzò la voce, s’infuriò e ci impose il ricovero. Aveva intuito tutto: sindrome di Kawasaki, sentenziarono più in là gli specialisti del “Bambin Gesù”, dopo un passaggio non proprio felice per la struttura che fu sua.
Con lui, poi, rinnovato bardascittu sempre al passo coi tempi, mi ritrovavo su facebook a discuter di politica – altra sua grande passione – a scambiare opinioni e battute, sempre, rigorosamente in un reatino che oggi ben pochi sanno parlare e comprendere. Incontri e “scontri”, se così si può dire, nelle divergenze che finivano sempre con un: “te salutu, bardascì”.

No, le morti non sono tutte uguali. In Paradiso ti accolgano gli angeli, Enzo dde issi dde Checcherellà e dde Dièce.