Rendere illegale la miseria

“Rendiamo illegale la miseria”. Questo il filo conduttore dell’incontro organizzato da Emmaus Italia per domenica 13 maggio alle 21 all’Auditorium Antonianum di Roma (www.emmaus.it).

L’appuntamento ricorda i 100 anni dalla nascita dell’Abbé Pierre, frate cappuccino, fondatore di Emmaus, che si è battuto con forza contro la miseria e l’ingiustizia. Per approfondirne la figura, Lorena Leonardi per il Sir ha intervistato Renzo Fior, presidente di Emmaus Italia, che coordina i tredici gruppi italiani del movimento internazionale fondato dall’Abbé.

Quali elementi rendono vivi la presenza e l’esempio dell’Abbé Pierre?

Basta il fatto di ‘compromettersi’ in prima persona con chiunque chiedesse aiuto a difesa di qualche diritto. Per l’Abbè la persona umana e i suoi diritti venivano prima di ogni altra considerazione politica ed economica. La sua attualità è evidente oggi che il dio denaro e il mercato stritolano le persone fino alla disperazione.

Come possiamo “rendere illegale la miseria” nella quotidianità?

Oggi ci dobbiamo rendere conto che costringere milioni di persone a vivere in condizioni subumane è costringerle ad una nuova schiavitù. Dobbiamo concretamente accogliere queste persone nelle nostre comunità, lavorare per dar loro dignità attraverso il lavoro, rompere il muro di omertà.

«Piuttosto che gli uomini muoiano legalmente, preferisco che vivano illegalmente». Fa un certo effetto leggere queste parole dell’Abbé Pierre, in un periodo così duro e costellato di suicidi…

La disperazione di tante persone nasce dalla profonda solitudine nella quale si trovano davanti ai problemi. Bisogna riaffermare la priorità della persona. E la persona non può essere lasciata sola. L’illegalità può diventare una scelta nonviolenta per poter riaffermare in maniera pubblica la dignità delle persone: Gandhi ci ha educato a disobbedire a leggi ingiuste che andavano contro la persona, ma era altrettanto pronto a pagarne le conseguenze: carcere, bastonature, violenze.

L’Abbé e i “compagni di Emmaus” ospitavano chiunque ne avesse bisogno. Un modello di accoglienza ancora troppo poco adottato.

Lui era solito dire: ‘Vieni, ti aspettavamo’. Le comunità Emmaus fanno dell’accoglienza di ogni persona la ‘divisa’ della loro vita. È ovvio che ci sono anche problemi logistici: non riusciamo ad accogliere tutte le richieste. In questi ultimi mesi non passa giorno che non arrivino tre o quattro richieste di accoglienza. Ma in generale credo che sia una questione di atteggiamento nei confronti degli ultimi visti, spesso percepiti come una scocciatura se non come potenziali delinquenti. È indispensabile trovare le modalità per mettere ogni persona nelle condizioni di dare il meglio di se stessi. Ad Emmaus abbiamo esempi straordinari: persone arrivate sfiduciate in comunità e che sono poi nel tempo diventate responsabili di altre comunità. Persone sulle quali la ‘società perbene’ non scommetteva un soldo che poi sono diventate capaci di gesti di condivisione straordinari. Siamo chiamati a cambiare visione e mentalità anche perché non dimentichiamo che bastano pochi giorni sulla strada per diventare ed essere considerato un ‘barbone.

L’Abbé Pierre parlava dell’«impegno di lavorare per dare pane a quelli che hanno fame e per dare fame a quelli che hanno del pane». La “fame” di chi ha già il pane è quella per la giustizia. Oggi c’è più fame di pane o di giustizia?

Direi che la ‘fame’ che oggi abbiamo è quella di ragioni e speranze per vivere. Nei miei viaggi attorno al mondo per visitare i gruppi Emmaus ho riscontrato maggior serenità, fiducia e felicità in tante persone che avevano sì fame di riso o di pane, ma che avevano nell’intimo del loro cuore la consapevolezza di possedere un tesoro di umanità e di condivisione che li rendeva capaci di sopportare con serenità anche queste mancanze. Purtroppo il nostro orizzonte si limita alla ‘pancia’ e dimentichiamo che abbiamo una mente, un cuore che non ha confini e che ha per vocazione l’abbracciare il mondo, essere aperto agli altri, condividere e sentirsi parte di una umanità fraterna. È da qui che nasce allora l’impegno per la giustizia: rimette ordine nella nostra vita ponendo in primo piano le cose che valgono.

Il discorso che l’Abbè Pierre fece ai microfoni di Radio Luxembourg, dopo la morte per assideramento di una donna sfrattata, è diventato celebre. Ed è un grande esempio di indignazione. Una capacità che forse oggi s’è persa?

Purtroppo oggi assistiamo a tanti esempi di indignazione ‘interessata’, per difendere privilegi e quant’altro. L’indignazione disinteressata, per il bene dell’altro, manca. Ricordando l’Abbè vogliamo riacquistare questa virtù che è possibile a tutti senza sentirsi o dover diventare degli eroi. L’indignazione è legata anche alla gratuità. Oggi troppo spesso davanti alle scelte ci chiediamo quali vantaggi possiamo ricavarne. Ma Il vangelo dice: «c’è un tesoro che né la tignola, né i ladri posso portar via». Qual è il nostro tesoro? Sono i piccoli, gli ultimi. Condividere con loro la vita è un tesoro inestimabile e imperituro.