È solo una calma apparente quella che si avverte fra Bruxelles e Strasburgo. Non sono ancora archiviate le elezioni per l’Europarlamento, eppure le istituzioni comunitarie e i governi dei 28 Stati membri hanno avviato frenetiche trattative, talvolta alla luce del sole, altre volte dietro le quinte, per definire la suddivisione delle cariche in scadenza, le personalità emergenti su scala comunitaria, le alleanze possibili anche in ragione di visioni assai diverse sul futuro della “casa comune”.
In fin dei conti i risultati del voto del 22-25 maggio hanno certificato una consistente presenza di cittadini euroscettici in diversi – ma non tutti – i Paesi aderenti, portando nell’emiciclo di Strasburgo una agguerrita pattuglia di eurodeputati che si metteranno di traverso nei prossimi cinque anni rispetto a ogni nuovo progresso dell’integrazione politica ed economica. Eppure la squadra eurocritica uscita dai seggi non è consistente quanto ci si sarebbe immaginati e difficilmente riuscirà a bloccare il processo di costruzione di un’Unione europea più forte e coesa, come sembrano richiedere le sfide globali e alla quale ambisce l’ampia maggioranza dello stesso Parlamento europeo, costituita dai gruppi Popolare, Socialdemocratico, Liberaldemocratico e Verde.
Ciò di cui si sente parlare finora sono però solo nomi di possibili futuri presidenti delle istituzioni, essendoci in gioco le poltrone più alte di Parlamento, Commissione e Consiglio Ue, tutte in scadenza entro sei mesi. Restano invece in sottofondo ragionamenti più ampi, relativi ai “programmi” e alle “visioni politiche” dell’Europa di domani. Ovvero, la si vorrebbe più o meno integrata? Con maggiori o minori poteri? Quindi occorrono, o no, ulteriori cessioni di sovranità dalle capitali nazionali verso quelle dell’Ue? Il bilancio unionale deve crescere o dimagrire? E deve essere costituito da “risorse proprie” oppure dipendere ancora dai fondi che vengono “gentilmente concessi” di anno in anno dagli Stati membri?
Questi temi potrebbero giungere finalmente sul tavolo politico continentale nelle prossime riunioni al vertice. Il Consiglio europeo si ritroverà il 26-27 giugno: dapprima a Ypres (Belgio) per una fugace commemorazione del centenario della prima guerra mondiale, quale monito per un’Europa di pace e di collaborazione tra popoli e Stati; quindi a Bruxelles, con un nutrito ordine del giorno, benché è certo che l’attenzione dei 28 leader si concentrerà sul nome da sostenere quale futuro presidente della Commissione (il popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker resta in pole position). Il prescelto passerà poi al vaglio del Parlamento europeo, che avrà la sua sessione d’insediamento a Strasburgo dal 1° al 3 luglio. L’Assemblea dovrà votare il proprio presidente, i 15 vicepresidenti, comporre gli organismi direttivi interni e le commissione consiliari. Soprattutto si materializzeranno ufficialmente i gruppi politici e si capirà l’effettiva consistenza degli anti-Ue oppure dei sostenitori di un’Europa diversa e più efficace, trasparente, vicina ai cittadini.
Durante la seconda sessione di luglio, fissata dal 14 al 17, il Parlamento voterà dunque il candidato alla guida della Commissione (sarà il successore di José Manuel Barroso, che lascerà l’Esecutivo il 31 ottobre) formulato dal Consiglio europeo: se arriverà l’accordo tra le due istituzioni, il prescelto potrà procedere, in accordo con gli Stati, alla definizione del Collegio, che verrebbe infine votato entro ottobre; diversamente si aprirebbe un braccio di ferro dagli esiti imprevedibili tra le due istituzioni dell’Unione.
La partita delle nomine comprende poi altre cariche: le principali sono quella di presidente del Consiglio europeo, al posto di Herman Van Rompuy, che terminerà il suo mandato a dicembre; l’Alto rappresentante per la politica estera; il presidente dell’Eurogruppo.
Tutta questa partita a scacchi si svolge però entro un contesto piuttosto problematico per l’Europa: la crisi economica e occupazionale, il conflitto aperto tra Ucraina e Russia, le migrazioni che premono ai confini meridionali, le turbolenze esterne (con in testa la drammatica situazione siriana), le volontà secessioniste interne, a partire da Scozia e Catalogna…
È ovvio che la politica Ue deve rispettare le sue scadenze, ma sicuramente non è tempo per tergiversare né per dividersi su personalismi controproducenti. Occorre ritrovare presto una convergenza fattiva tra chi crede nell’Europa comune, l’Ue della pace, dei diritti, dello sviluppo, della “unità nella diversità”. Dopodiché si potrà guardare avanti con qualche timore in meno e qualche prospettiva in più.