Nella Siria del terrore c’è un’oasi di pace per chi resta e spera

Padre Jihad Youssef, 38 anni da compiere, monaco dal 1999 e prete dal 2008. Siriano di rito maronita è uno dei 10 religiosi che abitano a Deir Mar Musa, la comunità monastica fondata negli anni ’80 da padre Paolo dall’Oglio. Adesso è in Italia per studiare, ma è pronto a rientrare. Nel suo racconto il coraggio di chi mette in conto il martirio di sangue. Sotto le bombe cristiani e musulmani.

Nella Siria dei tagliagole dello Stato islamico, della guerra civile, degli oltre 200mila morti e dei milioni di sfollati c’è ancora chi non perde la speranza di dialogare e cercare la pace. C’è ancora chi cerca di vedere nell’altro non un nemico ma una persona da accogliere, da conoscere e con cui condividere la fede nel Dio unico. Quel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe adorato anche dai musulmani. È racchiusa qui l’esperienza di Deir Mar Musa, la comunità monastica fondata negli anni ‘80 da padre Paolo dall’Oglio, il gesuita rapito a Raqqa (Siria) il 29 luglio 2013, da allora nelle mani dei suoi rapitori, e che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha voluto ricordare nel suo primo discorso, davanti alle Camere.

Una comunità immersa nel deserto, a 17 chilometri dalla città di Nebek, posta tra Damasco e Homs, dove il dialogo islamo-cristiano si vive concretamente e si fonde in un’esperienza millenaria di accoglienza, lavoro e preghiera. A raccontarlo è padre Jihad Youssef, 38 anni da compiere, monaco dal 1999 e prete dal 2008. Siriano di rito maronita è uno dei 10 religiosi che abitano a Deir Mar Musa, anche se adesso è in Italia per studiare, ma “a metà marzo – spiega – rientrerò in Siria”. La vita in monastero è fatta di tre momenti: “la preghiera ovvero la relazione con Dio. Poi viene il lavoro manuale, non per profitto ma per il suo valore educativo, un patto con il Creatore che ci ha consegnato la terra per custodirla. Infine l’accoglienza e l’ospitalità nel deserto. Prima della guerra arrivavano da tutto il mondo circa 40mila persone l’anno, turisti, pellegrini di varie fedi, e persone che restavano con noi per un po’ di tempo attratti dal nostro carisma del dialogo e anche per compiere gli esercizi spirituali ignaziani”.

Poi è arrivata la guerra nel 2011 che ha spazzato via tutto e che continua a divorare la Siria. “Doveva essere una protesta per ottenere migliori condizioni di vita, più diritti”, ricorda il monaco. Nulla di tutto ciò è accaduto. Solo violenza, distruzione, morte ma “noi siamo rimasti. Non siamo andati via, nemmeno quando la guerra era alle porte. Abbiamo sempre tenuto aperto anche se non veniva più nessuno, pronti ad accogliere, abbiamo continuato a pregare e a lavorare. Non solo nel monastero ma anche nelle nostre due parrocchie di Nebek, incontrando i fedeli cristiani e musulmani. Siamo rimasti per fedeltà a Cristo”. La guerra non ha interrotto il dialogo, “la voglia di incontrarsi e di restare uniti è più forte delle bombe”. “Il conflitto – dice con un mezzo sorriso padre Jihad – spacca i cuori, provoca shock ma ti può anche svegliare. Può farti dire che dialogare non serve, che non ci può essere colloquio con chi non la pensa come te, ma al tempo stesso può spingere tante persone a dialogare per non cadere nella disperazione. Perché chi ha sempre costruito ponti lo continua a fare”. Dialogare non per convertire, avverte subito il monaco, ma per “scoprire il bello e il buono che è nell’altro e considerarlo proprio. I padri orientali chiamavano la santità bellezza”. Questo è il filo che guida i monaci di Deir Mar Musa che girano “disarmati dei pregiudizi per cercare un dialogo sincero con l’altro senza avere la pretesa di convertirlo ma per gioire della sua ricchezza”.

Anche dei fondamentalisti tagliagole? “Non cerchiamo un martirio stupido. Se ci attaccano siamo pronti a fuggire. Ma siamo pronti al martirio di sangue. Il nostro messaggio sin da prima della guerra è che vivere con l’altro è bello e porta frutto”. Il pensiero di padre Jihad corre alle prime vittime degli estremisti, “i musulmani, quelli che non la pensano come loro. Per questi nessuno è sceso in piazza e mi domando perché. Lo stesso vale per le vittime di Boko Haram. Contano forse di meno? Tutto ciò accade perché non siamo solidali. Non dobbiamo essere arroganti ma credenti”.

Il futuro. Futuro non è una parola priva di senso anche nella Siria del terrore. “Restare è un segno di speranza poiché vogliamo costruire un futuro di pace nel nostro Paese. Ci sarà da lavorare molto per risanare i cuori, riconciliare la popolazione – spiega il monaco – la guerra non accenna a finire. La responsabilità è della comunità internazionale che sin dall’inizio non è stata onesta ad aiutare il popolo siriano, rappresentato sia dal regime che dall’opposizione. Ogni Paese straniero ha giocato per i suoi interessi nazionali. Questa guerra l’abbiamo subita. In fondo – ricorda con una punta di amarezza il religioso – tutti quelli che hanno marciato in testa al corteo dopo la strage di Charlie Ebdo non erano forse gli Stati maggiori produttori di armi? Quale pace invocate se poi vendete le armi in modo lecito e illecito?”. Intanto alla ricerca del dialogo si affianca l’aiuto concreto a gente bisognosa. “La nostra presenza ha dato conforto alla minoranza cristiana e agli amici musulmani”. Deir Mar Musa è una delle tante piccole oasi di pace in mezzo alla guerra dove “riusciamo ad essere di tutti”. Paura? “Quella viene e va. C’è ansia per il futuro, un futuro che non conosciamo. Tuttavia la speranza non ci abbandona mai. Dio ci guida in questo cammino”.