Sisma 2016

La cecità del male e la fiducia che dà alla vita un’altra possibilità

Si è svolta nella notte tra il 23 e il 24 agosto ad Amatrice la veglia di preghiera in ricordo delle vittime del terremoto

È un momento duro, vero, faticoso, quello della veglia nella notte tra il 23 e il 24 agosto, vissuto per il quinto anno ad Amatrice. Richiede il sacrificio dell’attesa, la rinuncia al sonno, l’impegno della presenza. Se non può essere altrimenti, è perché il dolore è vivo e il ricordo non può essere sublimato, reso astratto, allontanato quanto basta per viverlo in un altro modo, in un altro orario.

Non si tratta di fare un esercizio di memoria, ma di essere presenti e insieme nel momento esatto in cui la terra ha tremato, le case sono cadute, le vite sono state spezzate. La preghiera aiuta a sentire vicino chi non c’è più e i minuti necessari a leggere tutti i nomi dei caduti sembrano aggiungere al ricordo consistenza e durata. Come i colpi di gong che ne ribattono la presenza fino alle 3 e 36.

«Potranno queste ossa rivivere?». L’interrogativo posto dal profeta Ezechiele ha dato al vescovo Domenico lo spunto per rendere esplicite le domande che nella notte di Amatrice hanno forse attraversato il cuore dei presenti: «Che senso ha la vita se poi passa in maniera così tragica e inaspettata? È possibile poter sperare in un nuovo incontro con chi non è più in mezzo a noi? E che senso ha la mia vita, esposta a questo rischio mortale?». Nel pieno della notte, provocati da quello che è accaduto cinque anni fa, questi dubbi «servono a situarci» e a renderci conto di come «non abbiamo molte risposte». Se non gridare, come il cieco Bartimeo che cerca di farsi notare da Gesù.

Il grido in sé non è una risposta alle domande che albergano nel nostro cuore, «ma è fondamentale se vogliamo che queste non cadano nel vuoto. Fin quando non gridiamo, ha notato mons Pompili, rimaniamo come sospesi. Quando si grida è segno buono, vuol dire che si desidera prepotentemente qualcosa». Anche la veglia nella notte del 24 agosto è un grido, anche se implicito, silenzioso. Un grido simile a quello del bambino che nasce, che avverte della vita che inizia o riprende.

Anche la fede, ha aggiunto il vescovo, nasce da un grido. E spesso sembra rivolto a una promessa mancata. «Ma quando Gesù sente il grido di Bartimeo dice ai discepoli “chiamatelo”. E se non lo convoca lui stesso, è per dire che la fiducia può sorgere solo se ci sono altri intorno a noi che ci si fanno incontro. Lo abbiamo sperimentato in questi cinque anni: quando siamo stati raggiunti da chi ci ha aiutato a continuare a camminare, quando abbiamo avuto la fortuna di essere quasi presi per mano da chi non ci ha mai abbandonati». Segni che vanno presi come un invito a «trovare nella prossimità la forza di reagire alle domande che ci feriscono alle spalle».

Il brano evangelico si conclude con il cieco che si avvicina al Maestro: «Va – gli dice Gesù – la tua fede ti ha salvato». C’è tanta gente sfiduciata, ma «chi è portatore di fiducia dà alla vita un’altra possibilità».

Un atteggiamento che «significa anche onorare quelli che non sono più in mezzo noi», riconoscendo che «la loro vita continua anche attraverso la fiducia che sappiamo seminare».