I sindaci della camorra

Il pentito Iovine, uno dei capi storici dei Casalesi, conferma il marciume

“C’era la possibilità di ottenere una sentenza di assoluzione e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici”. Stando ai giornali – sempre che i giornali riportino fedelmente atti che comunque dovrebbero rimanere secretati – è questo quanto ha raccontato Antonio Iovine, uno dei capi storici del clan dei Casalesi, che sta ora collaborando con la giustizia.
Non sappiamo se sia vero, così come non sappiamo se il suo pentimento possa costituire – come ha scritto Roberto Saviano su “Repubblica” – “una svolta epocale, un vero e proprio spartiacque nella lotta alla camorra e che fa tremare grossa parte dell’imprenditoria, della politica, e interi comparti delle Istituzioni”. Saviano ha aggiunto: “E’ una notizia che rischia di cambiare per sempre la conoscenza delle verità su imprenditoria e criminalità organizzata non solo in Campania, non solo in Italia. Antonio Iovine detto ’o ninno per il suo viso di bambino, ma soprattutto per aver raggiunto i vertici del clan da giovanissimo, non è un quadro intermedio, un riciclatore delle famiglie, non un solo capo militare. È uno che sa tutto. E quindi ora tutto potrebbe cambiare”.

Noi, sappiamo altre cose.

La prima riguarda il fatto che uno Stato serio non può affidarsi solo al pentimento di un delinquente abituale – tale è Iovine, nonostante i racconti leggendari sulle sue gesta, che lo dipingono come camorrista sui generis, a cui piace la bella vita e il bel mondo – per tentare di sradicare da un territorio la criminalità organizzata. Occorreranno innanzitutto riscontri delle sue dichiarazioni, documentabili e riproducibili – e quindi dimostrabili – in dibattimenti pubblici. Poi serviranno indagini, patrimoniali e finanziarie, sulle persone che egli coinvolge, che in questo caso – come avviene in innumerevoli altre situazioni – vengono sottoposte al pubblico ludibrio, non solo prima di un eventuale processo, ma addirittura prima di un rinvio a giudizio.

La seconda questione che sappiamo deriva da una convinzione: l’humus grazie al quale fiorisce nel Sud la criminalità organizzata, è quello determinato da una società cosiddetta civile largamente corrotta. Non si può distinguere, nel Sud, una politica corrotta e una società civile onesta. Sarebbe un arbitrio, oltre che una menzogna. Per comprendere questa convinzione, riprendiamo le stesse parole che avrebbe detto Iovine ai magistrati: “Sto spiegando un sistema di cui la camorra non è l’unica responsabile. C’erano soldi per tutti in un sistema particolarmente corrotto. C’erano dei sindaci che avevano interesse a favorire imprenditori collusi con il clan per avere dei vantaggi durante le campagne elettorali in termini di voti e finanziamenti. Non aveva importanza il colore del sindaco perché il sistema era operante allo stesso modo. Generalmente io ero del tutto indifferente rispetto a chi si candidava a sindaco, nel senso che chiunque avesse vinto sarebbe entrato automaticamente a far parte di questo sistema gestito da noi”. Iovine ha parlato di una ”mentalità casalese inculcata fin da giovani”: “è la regola del 5% – ha detto – della raccomandazione, dei favoritismi, la cultura delle mazzette e delle bustarelle che, prima ancora che i camorristi, ha diffuso nel nostro territorio lo Stato, che non ha offerto delle possibilità alternative e legali alla popolazione. Le nostre condotte sono anche conseguenza di questo abbandono che abbiamo percepito da parte dello Stato”.

Sono parole di un camorrista, ma non sono lontane dalla realtà attuale del Sud. Sono anche parole che si possono estendere a territori che per tradizione storica non sono dominati dalle organizzazioni criminali. I casi di Expo 2015 e del Mose dimostrano che le nefandezze di cui sarebbero stati protagonisti esponenti della politica e dell’imprenditoria, hanno bisogno anche in Veneto e in Lombardia di una parte consistente della società civile consenziente, egualmente responsabile perché ne trae benefici, diretti o indiretti. Non c’è bisogno di essere nati a Casal di Principe per vivere secondo i modelli della cultura camorrista.