Benessere

Fibromialgia, l’enigma della malattia «senza volto»

Per dargli voce si è speso anche il Papa. I malati in Italia sono 2 milioni, soffrono di dolori continui e invalidanti, ma la loro patologia è ancora misteriosa. E lo Stato non rimborsa la cure

Una «patologia a volte trascurata». È stato papa Francesco a definire così la fibromialgia durante il Regina Coeli di domenica 9 maggio, esprimendo vicinanza a chi convive con una malattia dolorosa e invalidante ma ancora in buona parte sconosciuta. Colpisce soprattutto le donne, dall’adolescenza alla terza età, con un picco nel pieno della vita attiva. Le cause sono ignote, le cure sono poche, arrivare a una diagnosi è complicato. E non è neppure riconosciuta dallo Stato: un ddl è fermo in Senato. «A parte il dolore – spiega Maria Antonietta D’Agostino, ordinario di reumatologia all’Università cattolica e direttore di reumatologia al policlinico Gemelli – non esistono segni clinici specifici e caratteristici e quindi si procede con una diagnosi differenziale, di esclusione. Quando insorge dolore che non si associa ad altre anomalie, e non ci sono ragioni cliniche obiettive, si pensa alla fibromialgia, che può essere primitiva o anche prodromica ad altre patologie, complicando ulteriormente la situazione. Eventualmente possono presentarsi anche anomalie nel sonno, una scarsa risposta agli antinfiammatori e alcuni aspetti comuni nell’individuazione dei punti dolorosi».

Se è difficile riconoscerla, è anche complesso curarla. «Si altera il circuito del dolore, a partire dalle terminazioni nervose fino al centro. I pazienti soffrono molto, e certo non basta una semplice pillola per guarirli. L’impatto sulla qualità della vita è terribile, non si riesce a riposare, diventa quasi impossibile portare avanti le normali attività quotidiane, nel lavoro e nella cura della famiglia. Per noi medici è importante ascoltare a lungo il paziente, capire i suoi problemi e le sue difficoltà. Servono farmaci, certo, ma non bastano. Quando il dolore diventa cronico si può entrare anche in depressione e sarebbe necessario un adeguato supporto psicologico, ma anche massaggi per attenuare la contrazione e permettere un parziale rilassamento». La ricerca molto lentamente prosegue, orientandosi in modo particolare sulla comprensione dei circuiti dolorosi. Ma le attuali conoscenze sono minime. E intanto si continua a soffrire.

Recentemente la Società italiana di Reumatologia ha iniziato a stilare il Registro nazionale di malati fibromialgici, ma la patologia non è ancora riconosciuta dallo Stato e, di conseguenza, non è inclusa nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza. Il Servizio sanitario nazionale non interviene e i pazienti sono spesso costretti a pagarsi di tasca propria gli esami, le analisi e la terapia riabilitativa per provare ad alleviare il dolore, arrivando a un esborso superiore ai mille euro al mese. C’è un disegno di legge depositato in Senato nel 2018 da Paola Boldrini e Dario Parrini (entrambi Pd), ma è ancora tutto fermo. «Siamo invisibili – spiega Edith Aldama, infermiera e malata fibromialgica –. Anche se viene definita la malattia dei cento sintomi, e se ne inizia finalmente a parlare, per ora non è formalmente riconosciuta. Il dolore 24 ore su 24 impedisce di lavorare. E ci si trova a vivere a carico dei familiari, perché non è prevista pensione di invalidità. Molti pazienti non trovano via d’uscita, perdono ogni speranza, si sentono soli e abbandonati».
Edith è la referente per le malattie reumatiche della Pastorale della Salute della Diocesi di Roma: «Un mese fa è stata aperta quest’area che abbraccia le 150 malattie reumatiche, cercando di dare voce a tutti i malati, sostenendoli e contribuendo a dar loro dignità. Abbiamo coinvolto la Cei per aiutarci in una sensibilizzazione che possa arrivare ovunque. A Roma siamo andati nelle parrocchie, abbiamo creato una pagina Facebook (“Area malattie reumatiche Upsr. Fibromialgia insieme si può”) e un numero dedicato al servizio di ascolto (351.6220086)».

Sono molti i progetti per sostenere concretamente i malati e sconfiggere un profondo senso di solitudine. Racconta don Carlo Abbate, direttore dell’Ufficio della diocesi di Roma: «Tutto è partito dalla sensibilità del vescovo ausiliare Paolo Ricciardi, delegato per la Pastorale sanitaria, e dalla sua attenzione verso queste persone che vivono una situazione di invisibilità agli occhi dello Stato ma anche della società, convivendo con un dolore costante. La Chiesa è chiamata a dare sostegno e conforto: sostare significa saper stare accanto alle persone, anche in silenzio, perché la vicinanza è speranza». «Abbiamo pensato fosse importante prenderci carico di questa richiesta di attenzione da parte delle associazioni – conclude don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Cei per la Pastorale della salute –. Come sempre, abbiamo iniziato con l’ascolto. Continuando su questa strada, e in accordo con la comunità scientifica, stabiliremo il percorso migliore, stando accanto alle persone sofferenti e sostenendole nel cammino».

da avvenire.it