Femminicidio: il compito delle religioni

Sta diventando una carneficina l’uccisione di donne, mogli, fidanzate, compagne, figlie, a motivo del sospetto di tradimento, di accertato tradimento, di decisione di abbandonare il maschio.

Spesso ferito più nell’orgoglio che nell’amore, più nell’amore di sé che per altro, più per quello che dice la gente che per un serio esame di coscienza che metta in luce le responsabilità del maschio stesso nella fine del rapporto. Essere cornuto dà tanto fastidio!

Ma varare leggi più severe non serve, scandalizzarsi neppure. Forse la ricetta c’è, anche se potrà sembrare eccessiva, eretica, provocatoria, detonante.

Le religioni, e primo fra tutte il cristianesimo, devono rivedere, senza cambiare la granitica dottrina stratificatasi nei secoli e derivante da intoccabili testi sacri, l’approccio al tradimento, modificare l’eccessiva enfatizzazione dell’unione che dovrebbe durare per tutta la vita, ammorbidire toni che in menti eccessivamente possessive fino all’ossessione generano quasi una giustificazione della violenza.

Il tradimento c’è sempre stato e sempre ci sarà, come la guerra, come il peccato, come tutto. Quando si verifica è naturale che accada, anche se non è normale, nel senso che non corrisponde alla norma morale e giuridica.

È pieno l’antico testamento di tradimenti, più o meno giustificati, certamente condannati da Dio, ma sempre con una possibilità di riprendere il cammino. Nel nuovo testamento la dottrina sul matrimonio è ancora più stringente: «all’inizio non fu così» dice Gesù a quelli che gli dicono se sia lecito ripudiare la propria moglie, ma Mosè lo ha concesso per la durezza del vostro cuore.

Ma perché il cuore della nostra gente, di certi uomini senza cervello, senza cultura, senza sapienza umana e cristiana, senza apertura mentale, che tengono le loro mogli come schiave e subalterne, chiuse come animali, è un cuore nuovo come quello che vorrebbe Gesù?

L’adulterio è o non è come qualsiasi altro peccato mortale? Come la bestemmia, come tutte le infrazioni ai dieci comandamenti che costituiscono la materia grave di ogni azione morale che compiono ebrei e cristiani?

Sarebbe interessante esaminare un po’ tutte le religioni nel loro insegnamento sul matrimonio e il tradimento, anche per la severa lucidità con la quale disciplinano questi ambiti della vita, ma le religioni, che non si possono permettere il lusso di essere strumentalizzate per la guerra santa, figuriamoci se possono permetterselo per giustificare l’uccisione di una persona che ha tradito.

L’insegnamento dovrà essere più aperto, possibilista: la fedeltà non è un dato di fatto, o un miracolo della grazia sacramentale, è una possibilità che può realizzarsi con la forza della volontà, della fede, della grazia, della sequela.

Ma anche per come si atteggia l’altra persona, come mi tratta, come si prende cura, di me, come accudisce il rapporto, se non è così la possibilità della fedeltà diventa pura utopia.

E se succede non è niente di irreparabile. Si può ricucire il rapporto se è solido e ben fondato, si può rinsaldare, oppure, valutata ogni cosa, vi si può mettere fine senza che muoia nessuno. Non si è i primi e non si è manco gli ultimi, non si deve fare perché lo fanno tutti, ma se proprio è impossibile, amen. Fine della commedia.

Riduciamo l’enfasi dei matrimoni, anzitutto riducendo quella orribile e anacronistica pantomima di matrimoni fastosi, che spesso nascondono già ripetuti tradimenti nel corso del fidanzamento.

E poi quella perbenistica e benpensante espressione: «hai visto, proprio lei/lui! Sembravano tanto affiatati!». Facciamo solo ridere: dobbiamo cambiare approccio, c’è poco da dire e c’è poco da fare.

Faremo più bella figura con la storia!