Sacerdoti

Fate spazio a Dio

Dagli anni alla Viscosa ai giorni nostri, don Salvatore si racconta e osserva come sono cambiate la Chiesa e la società

«Ci stavo pensando in questi giorni: debbo dire davvero grazie al Signore, perché mi ha fatto fare tantissime cose». Mons Salvatore Nardandonio è stato ordinato sacerdote il 25 giugno del 1961: giusto tre anni fa, dunque, festeggiava 60 anni di Messa. Ora ha spento 90 candeline, ma tutte queste primavere non sembrano pesargli. «Soffro perché debbo fare troppe poche cose, non mi abituo a non avere più i ritmi di una volta, ma ovviamente non li potrei più sostenere. Però fatico ad abituarmi all’inattività. Prima rubavo il tempo per i miei studi, per la preghiera, adesso ho tanto più tempo e ne sono felice, ma quando posso fare qualcosa in parrocchia mi sento più vivo».

L’appartamento in via Garibaldi comprende un ampio salone, che negli anni è stato spesso protagonista di riunioni parrocchiali e di incontri con le famiglie: «La cosa principale per me è sempre stata la cura d’anime, l’ho sempre sentita fondamentale. Poi i vescovi mi hanno chiamato a fare tante cose e ho avuto vari incarichi».

Dal 1979 al 1984 don Salvatore è stato il responsabile della Caritas, «dove ho iniziato quando si chiamava ancora “Opera diocesana di assistenza”». Fu il primo sacerdote diocesano ad avere questa responsabilità: in precedenza, infatti, se ne occupavano i padri Stimmatini. Dopo, per undici anni don Salvatore è stato l’economo diocesano, ha quindi ricoperto per due mandati la carica di presidente dell’Istituto diocesano Sostentamento Clero e per due anni ha avuto l’incarico di vicario episcopale per la vita consacrata.

Otto anni in fabbrica

La sua attività pastorale, invece, ha avuto inizio alla Viscosa, come cappellano, quando il quartiere non faceva ancora parrocchia a sé, ma era parte di Regina Pacis. «Arrivai alla fabbrica in uno strano modo, richiesto dall’azienda stessa. Il vescovo mi domandò: “Tu come fai a conoscere la Viscosa?”. Il fatto è che andavo spesso a vedere le partite di calcio del Rieti allo stadio e il capo del personale e il direttore erano molto tifosi. Per qualche ragione mi notarono e decisero che facevo al caso loro».

Don Salvatore ricorda gli anni della fabbrica con piacere, nonostante in quel periodo la polarizzazione del dibattito fosse decisa: «C’era un sindacato fortissimo, ma erano tutti molto corretti». All’inizio non tutto fu facile, ovviamente: «La prima volta che entrai nella fabbrica fui accompagnato anche per conoscere gli ambienti e i percorsi; la seconda volli andare solo e non mancò chi mi rivolse parole non proprio edificanti». La fiducia fu conquistata sul campo, restando vicino agli operai, raccogliendo le istanze, facendo da mediatore. Nella fabbrica lavoravano tanti giovani e le iniziative pastorali venivano supportate dall’azienda. «D’altra parte non era raro che alcuni attriti fossero ricomposti proprio partecipando a queste occasioni, magari al pranzo che seguiva. Ricordo che durante l’occupazione di fabbrica alla Viscosa pregai gli operai di non passare dalla ragione al torto, e di non rovinare i macchinari che davano loro il pane. Condividemmo qualcosa da mangiare e me ne ricordo ancora: all’uscita mi aspettava il direttore che temeva ne venissi fuori con le ossa rotte, invece fu un momento bello. Di domenica celebrammo l’Eucarestia all’aperto e parteciparono gli operai di tutti gli orientamenti».

L’attività alla Viscosa metteva in contatto con uno spaccato sociale variegato. In fabbrica c’era qualche contadino risucchiato dalla piana verso la condizione operaia, ma tantissimi lavoratori erano immigrati dal veneto: prima da Padova, poi da Treviso. «Io li ho trovati inseriti molto bene, come dentro a una famiglia ben legata. Certe invidie non mancano mai tra gli esseri umani, ma tutto sommato si andava d’accordo. D’altra parte la fabbrica garantiva un certo benessere e agli operai i commercianti facevano credito serenamente, sapendo che sarebbero stati puntualmente saldati il 27 del mese. Lo stipendio era sicuro, non a caso nel tempo vollero entrare a lavorare anche tanti reatini».

Sant’Agostino e il Cammino

Dopo otto anni di attività alla Viscosa, don Salvatore viene chiamato alla guida della parrocchia di Sant’Agostino, alla quale resterà sempre legato. «All’inizio ho vissuto il passaggio con difficoltà, stavo bene alla Viscosa dove c’erano tanti giovani, tanta attività supportata anche dall’azienda. Per convincermi, il vescovo Trabalzini mi disse che la parrocchia era piccola e avrei potuto dedicarmi al mondo del lavoro. Il nucleo industriale stava nascendo e debbo dire di aver intessuto buoni rapporti sia con le aziende che con i sindacati. All’epoca del settore ci si occupava in collegamento con la Caritas: mons Trabalzini seguiva con grande attenzione questo genere di problemi e alla fine mi nominò delegato vescovile per il mondo del lavoro». Un impegno al quale mons Nardantonio aggiunge una nuova intuizione e nel 1977 dà avvio al Cammino Neocatecumenale: «Una bella realtà, arrivata a contare dieci comunità. Un movimento fatto di tante persone, ho celebrato tanti matrimoni, avuto attorno tanti ragazzi. In qualche caso ho celebrato i battesimi della quarta generazione ed è una cosa bella, si vede la continuità della vita e della Chiesa».

Cambiamenti d’epoca

Ma in tanti anni, ovviamente, le cose si modificano: «Prima del Concilio ero già prete: ne ho seguito i lavori attraverso mons Cavanna, che andavo a trovare a Roma». A quel momento propulsivo e di grande apertura corrispondono le esperienze in fabbrica, con i poveri, nella parrocchia. E questa conoscenza di prima mano della realtà permette senz’altro di misurare i cambiamenti rispetto al presente: «Oggi vedo molta più chiusura. In passato riscontravo più condivisione, adesso mi pare domini l’egoismo. A causa della paura, forse, si pensa più a sé stessi che non agli altri. La gente è meno aperta anche per l’insicurezza economica: nel periodo d’oro delle fabbriche c’era maggiore solidarietà. La gente aveva e dava: poi le fabbriche hanno chiuso e le persone oggi non si fidano. I depositi in banca crescono per paura del futuro, perché le famiglie vedono i figli non trovare lavoro. Abbiamo fatto l’abitudine all’egoismo e cambiare le abitudini è difficile.
Bisogna ricostruire da capo l’uscire, l’incontrarsi, la capacità di aprire gli occhi e capire veramente dove sono le necessità».

Ripartire dal Signore

Interrogato su cosa fare leva per ricominciare, don Salvatore non ha dubbi: «Dovremmo saperci affidare maggiormente di Dio, anche noi sacerdoti: ci fidiamo molto delle nostre capacità e poco del Signore. Facciamo fatica ad essere audaci, ad affrontare i cambiamenti, perché non sappiamo più affidarci. Proprio per questo oggi ci vorrebbe molto più annuncio del Vangelo: bisogna ascoltare tanta Parola di Dio. Non la conoscevamo, poi il Concilio ha portato un’apertura. Oggi mi pare che ci siamo richiusi. L’unica cosa che si fa è che si celebra la Messa. Ma forse bisognerebbe valorizzare di più la liturgia della Parola. L’ignoranza della Parola è ignoranza di Cristo. So che di queste cose si parla tanto, ma non so se si fa tanto. Faccio un richiamo innanzitutto a me stesso: se da prete conosco e vivo la Parola di Dio, allora sono in grado di porgerla. Nessuno può dare ciò che non ha».

Indovinare le forme dell’annuncio è diventato urgente. Anche la vita delle parrocchie deve cominciare a cambiare: «Bisogna inventare modi nuovi di porgere la figura di Gesù. Ogni epoca ha bisogno di una sua ri-evangelizzazione. La Messa è il culmine, ma Gesù dice “andate e predicate il Vangelo”, non dice “andate e celebrate”. Questo è il mandato della Chiesa. Il Covid ci ha chiuso ancora di più. Questa crisi delle nostre chiese che tendono a vuotarsi, il Covid l’ha accelerata. Noi dobbiamo rispondere annunciando Cristo. La prima cosa è dare la Parola». E se il riferimento è l’idea della “Chiesa in uscita”, è necessario passare dallo slogan alla realtà concreta: «Bisogna uscire come persone, andare incontro, stare nelle piazze e nelle strade. Bisogna anche lasciarsi trovare».

Essere precursori

«Dobbiamo stare molto attenti», sottolinea don Salvatore: «Dio ama seriamente ogni uomo. Ogni uomo ha un suo momento nel quale il Signore lo chiama. Forse il compito della Chiesa oggi è quello preparare le nuove generazioni a questo incontro, che ci sarà sicuramente. Quando, dove e come non lo sappiamo. La vita del cristiano dev’essere un segno: oggi è il tempo di essere precursori di Gesù».

Il sacerdote passa molto del suo tempo nello studio di casa, dal quale gode di una buona luce e di un bel panorama. E poi dalla finestra può affacciarsi e controllare il suo orto. «Questo è il mio mondo, leggo molto e prego sempre di più. La Bibbia ce l’ho sempre a portata di mano». Tra i frutti di questo impegno ci sono le brevi meditazioni che don Salvatore invia ai suoi contatti Whatsapp: «È una buona modalità, che mi piace molto, un altro modo di stare in relazione. Vedo che ormai in molti usano questo sistema ed è una cosa positiva: anche così arriva una Parola che aiuta, ispira, accompagna durante la giornata. Anche questa è evangelizzazione: una Parola che circola. D’altra parte il telefonino ce l’abbiamo tutti in mano: l’importante è che non sia l’unica forma, ci vuole la persona, il messaggino in sé non è sufficiente. Occorre, come si dice oggi, “stare in presenza”».

La passione di don Salvatore per i libri è evidente, ce ne sono ovunque: «Soprattutto le sacre scritture e i padri della Chiesa». L’ottima memoria, che gli consente di citare al volo frasi intere, non lo fa però vivere nella nostalgia. Lo sguardo e sempre curioso sul presente e interessato al futuro: «Se c’è bisogno di raccontare momenti belli va bene, ma mi interessa domani e dopo domani. Non posso più programmare per la parrocchia, ma ogni tanto mi viene in mente qualche iniziativa da proporre. Magari ne parlo con i confratelli che vengono a trovarmi, a parlare con me, a confessarsi. Qualcuno mi presenta i suoi problemi. Il momento è difficile per tutti».

La lezione dell’orto

Oltre che nell’intensa vita intellettuale, don Salvatore trova soddisfazione nel lavoro fisico: «All’orto mi dedico volentieri, prima lo facevo tutti i lunedì, adesso che non ho più la forza e la sveltezza faccio quello che posso e mi faccio aiutare per quello che non riesco. Mi piace vedere la vita che nasce e si sviluppa, si rinnova: il seme, la piantina, i fiori, il frutto. Ovviamente c’è il risvolto pratico, si mangia quello che si produce: proprio adesso si cominciano a raccogliere le prime verdure di stagione. Ma soprattutto l’orto è un invito a fidarmi del Signore. Io cerco di impostare bene il lavoro, ma l’agricoltura ci ricorda che non tutto dipende da noi, che ci dobbiamo confidare nella Provvidenza, che dobbiamo lasciare spazio al Signore in noi stessi e anche nel rapporto con gli altri. Come tra le piante dell’orto c’è uno spazio che non bisogna occupare, così dobbiamo fare spazio a Dio: “È necessario che egli cresca e io diminuisca”, diceva il Battista. Bisogna sapersi mettere da parte e lasciare spazio a Gesù. È il Signore che fa crescere, non siamo noi: sia nell’orto che nella pastorale. Dobbiamo diminuire ma è difficile, perché l’egoismo e l’orgoglio sono terribili. Abbiamo un grosso peccato che non sappiamo confessare: vorremmo essere al centro di tutto e di tutti. Se siamo al centro ci sentiamo bene, altrimenti c’è qualcosa che non va. Vale la pena rifletterci a fondo».

*Intervista pubblicata originariamente nell’edizione cartacea del settimanale Frontiera, il 25 giugno 2021