La stagione del Covid, dei troppi lutti e dei lockdown, passerà alla storia anche come un periodo buio per la natalità. In quasi tutto il mondo le nascite sono scese nel 2020 ai minimi e il 2021 si annuncia ancora più critico. A dicembre, nove mesi dopo il primo confinamento, l’Istat ha stimato che in Italia il calo potrebbe essere superiore al 20% rispetto allo stesso mese del 2019, un crollo che porterebbe il 2020 a registrare un numero di neonati inferiore ai 400.000. In Spagna è andata anche peggio, con una riduzione del 23%, in Francia il calo è stato del 7% a dicembre e del 13% a gennaio 2021, in Svezia la flessione è “solo” del 6,5%, ma negli Stati Uniti si stima un calo del 15% nel periodo novembre 2020-febbraio 2021.
In diversi Paesi la pandemia sembra aver accelerato una tendenza consolidata e di dimensioni globali. Uno studio della Washington University ha di recente corretto le previsioni Onu stimando che il tasso di fecondità totale nel mondo scenderà al livello di sostituzione di 2,1 figli per donna già nel 2035, convergendo a quota 1,66 nel 2100. Il picco della popolazione mondiale verrebbe così raggiunto poco dopo il 2060, con 9,7 miliardi di persone, e da quel momento incomincerebbe la discesa. Secondo la ricerca di un economista della Hsbc, invece, anche a causa della crisi economica sanitaria, il picco verrebbe anticipato al 2050.
Dalla prospettiva di un “baby boom”, nel volgere di pochi decenni il mondo ha incominciato a preoccuparsi per gli effetti di un “baby bust”. Un mondo con famiglie più piccole e una popolazione più anziana significa problemi economici, di sostenibilità del welfare, ma anche una prospettiva sociale di persone destinate a invecchiare sole. In questo scenario l’Italia si trova ad affrontare un’emergenza più marcata. I Paesi che si sono dotati prima di maggiori e migliori strumenti di sostegno rivolti ai genitori, si pensi al Nord Europa, stanno pagando un conto meno duro. Una ricerca relativa all’impatto del Covid-19 sui progetti familiari, condotta intervistando giovani di 18-34 anni nella primavera 2020 (F. Luppi, B. Arpino, A. Rosina), aveva colto i segni del cambiamento: in Italia una quota molto più alta di persone rispetto a Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna dichiarava di aver rinunciato a diventare genitore. La maggiore fragilità dei progetti di famiglia nel nostro Paese, a fronte di sostegni più limitati, è emersa anche dal rapporto “Giovani e famiglia in tempo di pandemia”, realizzato da Cisf e Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo: il 47% delle donne dai 31 ai 35 anni oggi non pensa più avere un figlio, mentre solo il 24% dei coetanei maschi ha rinunciato a diventare padre. Il desiderio di famiglia resterebbe invece più alto nelle generazione dai 25 ai 30 anni.
La storia insegna che lo sviluppo, anche a seguito di trasformazioni culturali importanti, porta una riduzione dei tassi di fecondità. Nella società moderna riescono a “resistere” taluni gruppi etnici o con forti motivazioni morali, ma soprattutto quei contesti dove “sviluppo” significa anche molte risorse economiche destinate alle famiglie e servizi che permettono a chi ha figli di lavorare ed essere genitori presenti. Ma si tratta di una “resistenza” calata in uno scenario in cui nei Paesi avanzati avere un figlio sta diventando sempre di più una tra le tante opzioni di realizzazione personale. La crisi economica del 2008 e la pandemia del 2020 hanno reso l’insicurezza una condizione strutturale per un periodo eccezionalmente lungo, che sta segnando proprio la generazione attiva e in età fertile. Se la crisi demografica è l’humus della nostra società, ci sono contesti in cui le difficoltà si scaricano in modo più violento.
È in questo panorama che arriva l’assegno unico e universale, il cui debutto, se la politica manterrà la promessa, è previsto dal prossimo luglio. Una riforma importante, tuttavia si potrà parlare di vera svolta solo se si tratterà del primo passo di un cammino più lungo. L’assegno, elargito dal 7° mese di gravidanza al 21esimo anno del figlio, riunirà le diverse e frammentate erogazioni economiche per i genitori in un solo benefit con una base minima uguale per tutti, più un supplemento legato all’Isee. I 6 miliardi l’anno aggiuntivi stanziati dicono però che da un punto di vista economico la riforma sarà più un premio per chi ha figli che un incentivo sostanziale alla natalità.L’aspetto positivo è il messaggio implicito che viene dato alle nuove generazioni: l’Italia ha incominciato a pensare alle famiglie con figli.
La fiducia, per consolidarsi, richiede però l’apertura di un grande cantiere-famiglia per giungere a qualcosa di molto più significativo: neutralità fiscale del costo di mantenimento dei figli, servizi educativi e di cura diffusi e a costi minimi, una comunità che accoglie e protegge i genitori a ogni livello, dalle aziende al territorio, e soprattutto che smette di dire a chi ha figli: «Hai voluto la bicicletta? Pedala!».
Gli aiuti per la natalità assomigliano molto alle piste ciclabili. In una città senza percorsi riservati, i ciclisti si spostano a loro rischio e pericolo e di conseguenza sono pochi. Con qualche ciclabile in più la situazione non cambia. In una città in cui i tracciati per i ciclisti sono diffusi, ampi e ben fatti, le bici si moltiplicano e la qualità della vita migliora per tutti. Così può essere per i bambini. L’Italia è indietro di 20-30 anni sia quanto a ciclabili che sostegni per i figli. Quando il clima di ansia, paura e incertezza causato dal Covid verrà meno, la generazione che ha sperimentato sulla propria pelle le conseguenze dell’individualismo potrà desiderare qualcosa di diverso da un destino di solitudine. Per trovarsi pronti, il cantiere della speranza va aperto adesso.
da avvenire.it