Rieti passa per essere una città piuttosto chiusa e conservatrice. A tratti, dicono sia addirittura reazionaria. Eppure dal Comune è arrivata una giornata dedicata all’innovazione. Nella sala polifunzionale ricavata nel cortile dell’ex convento di Santa Lucia, tante voci hanno offerto una panoramica sulle possibilità aperte dalle tecnologie più recenti: dalla banda ultra larga all’elettromobilità, dalle applicazioni per cellulari ai vantaggi delle smart city, dalle reti sociali alla sicurezza in rete.
Uno scenario guardato in modo complessivamente positivo e orientato in buona parte a valorizzare le potenziali opportunità economiche offerte dai dispositivi di ultima generazione e dalle strategie produttive e commerciali che portano con sé. Non a caso l’Innovation day comunale è stato pensato come punto di incontro per imprenditori, innovatori e studenti: un’occasione di scambio che potrebbe dare qualche buon frutto e che in ogni caso ha il merito di sollecitare la città a scrollar via un po’ di polvere, ad aprirsi al nuovo, a cambiare mentalità.
«Think different», verrebbe da dire, citando un fortunato slogan della Apple. Ma tenendo fede a questa intuizione si potrebbe andare controcorrente e osservare che in realtà Rieti è tutt’altro che estranea all’innovazione e alle nuove tecnologie. Ai tempi d’oro del nucleo industriale, il territorio ha ospitato produzioni di altissima qualità nel campo dell’elettronica. Forse tanti operai non hanno rinunciato alla condizione dei metalmezzadri, ma una qualche familiarità con chip e transistor è entrata comunque a far parte del nostro dna, mettendo le mani sulle prime calcolatrici scientifiche o facendo girare fino allo sfinimento qualche “Grillo parlante” sfornato dalla Texas Instruments.
Niente a che vedere, ovviamente, con i computer mascherati da telefoni che ciascuno di noi, a partire dai più giovani, ha in tasca. Dispositivi che rispondono quotidianamente a quasi ogni nostro bisogno e in modo così trasparente ed efficace da modellare abitudini, costumi, comportamenti. Per questo, più ancora dell’Innovation day, sembra necessario il Festival della Cultura Digitale che si svolgerà in città in autunno. La scelta di un nome italiano al posto di consumate formule in inglese fa sperare in un contesto dotato di un qualche senso critico: oltre che ai vantaggi della tecnologia, l’attenzione andrebbe infatti rivolta ai rischi.
Come fa, ad esempio il prof. Ed Finn, che in un recente libro pubblicato da Einaudi si domanda «Cosa vogliono gli algoritmi» e analizza la realtà di assistenti intelligenti come Siri, la capacità di aziende come Netflix o Amazon di catalogare e indirizzare i gusti delle persone, la prospettiva economica dei Bitcoin, l’obiettivo quasi raggiunto da Google di anticipare ogni nostra esigenza o intensione.
Tecnologie e innovazione non vanno divinizzate, né demonizzate, ma tenute sotto osservazione, essendo forze capaci di cambiare le persone, incidere sulle scelte personali e forse condizionare il voto democratico. E c’è da sperare che il prossimo Festival della Cultura Digitale tenga anche conto dello conseguenze dell’avere giovani e adulti iperconnessi e immersi nei social. Una condizione che spesso favorisce solitudine, nevrosi e frustrazione.
«Non tutto ciò che viene dopo è progresso», ammoniva Alessandro Manzoni: una vera innovazione sarebbe quella di coltivare questa consapevolezza. La cultura, pure quando è digitale, è anche questa capacità di distinguere l’utile dall’inutile, il rischio dal vantaggio, ciò che è bene e ciò che è male.
Un esercizio in cui il Vangelo è di grande aiuto. La Parola del Maestro per prima insegna a pensare diversamente, ci spiazza nel giudizio, vince in contropiede le nostre più radicate convinzioni. E fa guardare molto più lontano di quanto non riesca qualunque innovatore, vero o presunto che sia.