La Cina censura Google

Nei giorni in cui il mondo ricorda la rivolta anti Regime a piazza Tienanmen

Periodicamente lo scontro on-line tra le due superpotenze torna alla ribalta con la cronaca di nuove scaramucce. Questa volta, come in effetti è capitato spesso nel corso degli anni, il protagonista della vicenda è Google: il motore di ricerca a stelle e strisce è stato oscurato proprio nei giorni della commemorazione dei tragici fatti di piazza Tienanmen. Un tentativo di censurare il ricordo di episodi che imbarazzano Pechino, ma anche una evidente ritorsione contro Washington e le recenti accuse giunte dal Grand Jury del distretto ovest della Pennsylvania. A dare la notizia del bavaglio stretto attorno a Mountain View è l’edizione on-line di Forbes: Pechino ha reso inaccessibile il motore di ricerca e quasi tutti i servizi di Google, da Gmail, passando per Calendar, fino a Translate. L’operazione è, anzitutto, un tentativo del Regime di limitare i danni di immagine nei giorni in cui il mondo ricorda piazza Tienanmen, un’azione in perfetta continuità con la strategia adottata in questi anni dalla Cina. Nel 2009 (anno del 20° anniversario delle proteste) il Governo ha innalzato una vera e propria Muraglia digitale contro qualsiasi strumento di informazione: bloccati (completamente o a singhiozzo) Twitter, Hotmail, Windows Live, Blogger, Flickr, YouTube e (l’allora neonato) Bing; mentre i media occidentali (Bbc e il Financial Times) si vedono epurare i propri siti internet delle pagine che commemorano gli eventi accaduti 20 anni prima.

L’ultimo episodio è, però, anche la risposta di Pechino a quello che viene avvertito come un attacco partito direttamente da Washington contro l’apparato cinese. Tutto ha inizio in Pennsylvania, dove il Grand Jury del distretto ovest ha chiamato sul banco degli imputati cinque esperti informatici dell’esercito cinese: l’accusa è di aver compiuto azioni illegali di hacking e spionaggio ai danni di sei cittadini statunitensi. I cinque militari, membri dell’unità 61398 con base a Shanghai, avrebbero messo in atto un vero e proprio spionaggio industriale di Stato, con l’obiettivo di passare segreti ed informazioni alle aziende d’oltre Muraglia. Il procedimento ha un valore che va al di là della cronaca, perché si tratta del primo processo in cui alcuni membri dell’esercito cinese sono ufficialmente e pubblicamente accusati di fatti di cyberspionaggio ai danni di un Paese occidentale.
La reazione di Pechino non si è fatte attendere. Il ministro degli Esteri cinese ha cercato di ridare il cerino in mano agli Usa: “La Cina è vittima di diverse incursioni informatiche perpetrate dagli Stati Uniti, di intercettazioni e di sorveglianza illegale”. Interrotti, inoltre, tutti i gruppi di lavoro congiunti Usa-Cina sui temi della cybersicurezza e minacciate ulteriori rappresaglie “con l’evolversi della situazione”. E non c’è voluto molto perché le minacce diventassero fatti, in un crescendo che ha il sapore di una vera e propria prova di forza di Pechino (che punta a sfiancare l’amministrazione Obama colpendo gli interessi economici delle aziende statunitensi). La prima vittima eccellente è stata Microsoft: da tutti i computer dell’apparato statale cinese è stato rimosso il sistema operativo Windows 8. Poi è stato il turno di Ibm, che si è vista tornare a casa un bel po’ di server installati dalle banche cinesi. Ed ora Google. Non resta che attendere la prossima mossa.