«Gesù non cerca l’ammirazione dei suoi, come uno stoico che vuole dare l’esempio. No, vuol chiarire che occorre stargli dietro e perché questo sia chiaro precisa quali siano le condizioni, e la condizione delle condizioni è una: rinunciare a se stessi. Ma questo – ha spiegato il vescovo Domenico durante la celebrazione eucaristica nella Solennità di Santa Barbara – è il contrario di quello che ci sembra più ovvio. Non siamo forse noi stati allevati a pane e autorealizzazione? E perché mai noi dovremmo rinunciare a noi stessi?»
«Eppure Gesù non recede» ha aggiunto mons. Pompili, anzi: «non basta rinunciare a se stessi. Occorre prendere la croce ogni giorno». È il punto che ricollega alla testimonianza della Patrona: «in un certo senso ci apre ad un’altra visione del martirio che non è necessariamente cruento e istantaneo, una volta per sempre, ma si diluisce “nell’ogni giorno”. E non è un martirio meno esigente o radicale».
Ma di fronte a questa prospettiva cui pongono un freno due rischi, due limiti «cui vanno incontro i discepoli di ieri e di oggi: il denaro e la vergogna. A pensarci – ha sottolineato don Domenico – sono ancora oggi le stesse cose che ci tengono a debita distanza da lui».
Il denaro «non è semplicemente il conto in banca, ma la smania di guadagnare sempre in ogni circostanza. È la dittatura dell’utile, che consiste nel fare solo quelle cose che ci tornano indietro in qualche modo. Una sorta di tarlo che nella vita di ogni giorno tende ad imporsi. Fare esclusivamente quello che mi porta a trarre un vantaggio. E se il vantaggio non c’è è preferibile darsela a gambe».
Ma così facendo ci perdiamo le cose più belle della vita, che stanno per lo più dentro lo spazio del gratuito. E questa forse è la vera ragione per cui ci perdiamo Dio che è per definizione “in-utile”, gratuito, al punto che pare quasi non esserci. Il punto è che Dio manca, ma non ci manca. Ed è proprio questo il rischio che corriamo tutti: di perdere impercettibilmente la sensazione che se manca, ci manca qualcosa di essenziale. Quando ci lasciamo schiacciare dal semplice tornaconto, non ci rendiamo conto di ciò che è essenziale, veramente decisivo, e ne paghiamo il prezzo: perdendo l’entusiasmo. Una parola che vuol dire “con Dio dentro”. E qualche volta perdiamo anche gli affetti più cari. «Che giova all’uomo se guadagna il mondo intero e perde e rovina se stesso?»
L’altro limite che incontrano i discepoli del Maestro, i fedeli di tutte le epoche, è la vergogna.«È la paura di essere presi in giro e di non essere accettati. Magari subiamo il fascino della persona di Gesù. Confusamente intuiamo che è lì la verità della nostra vita. E tuttavia abbiamo vergogna. Sembra ci sia sempre il pericolo che in famiglia, nel nostro ambiente di lavoro, in piazza, l’esibire quello che ci sta a cuore – senza ostentazione – possa diventare oggetto del disprezzo degli altri, e allora facciamo marcia indietro per paura di essere rubricati a bigotti».
È stato detto con grande efficacia che una volta l’ipocrisia era il debito che il vizio pagava alla virtù: si era ipocriti perché se uno faceva il male lo negava. Oggi le cose si sono capovolte, l’ipocrisia è il debito che la virtù paga al vizio. Anche quando siamo capaci di fare cose belle, interessanti, costruttive, paghiamo dazio al vizio, perché sembra che la virtù possa essere oggetto di dileggio.
«Così non è stato per Barbara» ha concluso il vescovo: «si è decentrata rispetto alle mire del padre, che voleva farla sposare a tutti i costi, e ha scelto un’altra strada. E sopratutto non si è mai vergognata di essere cristiana, perché aveva capito che il maestro non va semplicemente ammirato, ma va soprattutto imitato».
Foto di Massimo Renzi.