I venezuelani in fila per entrare in Colombia. Vescovo di Cúcuta: «Hanno fame, malattie, sono sfiniti e denutriti»

Da troppo tempo, ormai, in Venezuela mancano cibo, generi di prima necessità, medicine. Il pugno di ferro del presidente Maduro è sempre più pesante, la gente ha fame ed è rassegnata che le cose nel proprio Paese possano cambiare. Così crescono i profughi.

La frontiera più accessibile è quella colombiana: lunga 2.200 chilometri, è facilmente attraversabile, dal deserto de La Guajira alle praterie dell’Arauca
Un esodo continuo, che ormai i due ponti che collegano il Venezuela a Cúcuta, la prima città in territorio colombiano, stentano a contenere.

«I venezuelani sono sempre di più – ci dice con preoccupazione il vescovo di Cúcuta, mons Víctor Manuel Ochoa Cadavid – percorrono a piedi i ponti dedicati a Simón Bolívar e al generale Santander. Tra loro, sempre più spesso, ci sono intere famiglie, giovani, minori, donne incinte».

Frontiera accessibile. È il primo effetto del continuo peggioramento delle condizioni di vita nel Paese confinante. Da troppo tempo, ormai, in Venezuela mancano cibo, generi di prima necessità, medicine. Il pugno di ferro del presidente Maduro è sempre più pesante, la gente ha fame ed è rassegnata che le cose non possano cambiare. Così crescono i profughi.

La frontiera più accessibile è quella colombiana: lunga 2.200 chilometri, è facilmente attraversabile, dal deserto de La Guajira alle praterie dell’Arauca.
Ma la città frontaliera più grande è Cúcuta, diventata ormai un grande magnete. Da più di due anni, ormai, il capoluogo del dipartimento del Norte de Santander è sotto pressione. All’inizio l’esodo riguardò i colombiani di ritorno, espulsi dal regime di Maduro che aveva chiuso le frontiere. Poi, con il peggiorare della situazione, il Venezuela ha gradualmente aperto la frontiera ed ora lascia passare tutti.

«I venezuelani che arrivano da noi possono essere divisi in tre categorie – spiega mons. Ochoa -. In primo luogo, ci sono quelli che arrivano in cerca di cibo, o di medicine, o che hanno bisogno di cure. Costoro, solitamente, tornano in Venezuela. La seconda categoria è costituita dai colombiani di ritorno, ma anche da altri stranieri, spesso europei, che fuggono e usano il nostro Paese come terra di passaggio. Infine, ci sono i profughi che attraversano il confine per restare in Colombia, o per cercare fortuna in altri Paesi dell’America Latina».

Arrivi in grande aumento. La situazione è caotica e non è facile avere cifre attendibili: «Fino a qualche mese fa – prosegue il vescovo – sui 37-40mila che passavano attraverso il confine in un fine settimana, quelli che restavano nel nostro Paese erano 5-6mila. Nelle ultime due settimane sono passati in 90-100mila».

E crescono quelli che non tornano indietro: «C’è chi stima che attualmente in Colombia ci siano 600mila venezuelani, qualcun altro parla di 800mila. Il registro predisposto dal Governo ha finora contato un milione e 600mila arrivi, ma non sappiamo chi è rimasto e chi invece è fuggito in altri Paesi».

Numeri già saliti in gennaio rispetto a quelli forniti da “Migración Colombia” a fine 2017, quando si parlava di un milione e 300 mila persone registrate e 552mila persone rimaste sul territorio colombiano. Tra questi, circa 350mila persone erano considerate irregolari.

L’aumento di arrivi nel 2017 è stato stimato del 50% rispetto all’anno precedente.

Il 60% dei venezuelani presenti in Colombia sono laureati o hanno un titolo di studio di scuola superiore. Del problema si parla in questi giorni al Vertice dei Paesi sudamericani che si tiene a Lima. Ma è previsto anche un incontro tra i ministri della Difesa di Colombia e Venezuela per far diminuire gli arrivi.

Il grande sforzo della Chiesa locale. Una situazione, quella che si vive a Cúcuta, che è ormai quasi impossibile da reggere: «Le persone che arrivano hanno fame, malattie, c’è gente sfinita e denutrita, molti non hanno più nulla. Come Chiesa locale ci sforziamo di tendere la mano a questi fratelli, per accoglierli, aiutarli, accompagnarli. In sette mesi abbiamo distribuito 330mila pasti. Ogni giorno serviamo almeno 8mila pasti caldi, attraverso mense dislocate in otto diverse parrocchie. Abbiamo anche un centro di accoglienza diocesano, gestito dai padri scalabriniani, ma è pieno da tempo. Molti dormono per strada»

Prosegue mons Ochoa: «Devo evidenziare lo sforzo dei laici, operatori pastorali, volontari, parrocchie, movimenti ed associazioni».

E’ proprio la Chiesa a sostenere il maggior peso dell’accoglienza: «Abbiamo degli aiuti da Caritas Internationalis e dal Segretariato di Pastorale sociale-Caritas della Chiesa colombiana».

Quest’ultimo organismo ha dedicato la campagna di solidarietà quaresimale proprio a questa emergenza.

«È una chiamata alla carità, alla quale stiamo rispondendo, cerchiamo di vivere quella cultura dell’incontro che papa Francesco ci indica continuamente»,
spiega ancora il vescovo, che accenna anche ai forti vincoli di fraternità con la vicina diocesi venezuelana di San Cristóbal: «Mi confronto spesso con il vescovo, mons Mario del Valle Moronta. Alcuni loro volontari vengono qui e ci aiutano nella distribuzione dei pasti».

Un’ultima considerazione è sulla situazione del territorio di Cúcuta, «una delle località con maggiore disoccupazione della Colombia – dice mons Ochoa –. Qui abbiamo il problema del narcotraffico e della violenza. Sono ancora presenti due guerriglie, l’Eln e il piccolo gruppo dell’Epl».