Un uomo di parola

Dopo la presentazione di colui che dovrà essere ordinato vescovo, una antica tradizione richiede che egli sia interrogato in presenza di tutto il popolo circa le sue intenzioni ad esercitare il ministero con rettitudine e fedeltà.

Ben nove domande risuonano nelle orecchie, nella mente e nel cuore dell’ordinando con una intensità sempre più incalzante. È la sua volontà, la sua libertà, la sua disponibile responsabilità che viene interpellata. La Chiesa ripone nell’ordinando la sua fiducia, sollecita la sua adesione e i suoi nove “sì, lo voglio” lo inchioderanno alla fedeltà alla parola data, sincera ed affidabile.

Nella lunga serie di interrogazioni emergono, quasi con prepotenza, nove espressioni che sono il concentrato delle relative domande: adempiere il ministero, predicare il vangelo, custodire il deposito della fede, edificare la Chiesa nell’unità, prestare obbedienza al papa, prendersi cura del popolo, essere accogliente, andare in cerca delle pecore smarrite, pregare per il popolo di Dio.

Ad alcune di queste espressioni abbiamo già accennato nei due articoli precedenti, su altre torneremo in seguito, mi limito qui a commentare brevemente quelle che maggiormente sollecitano la mia sensibilità.

Credo sia necessario cominciare dalla fine: «Vuoi pregare, senza mai stancarti, Dio Onnipotente, per il suo popolo santo, ed esercitare in modo irreprensibile il ministero del sommo sacerdozio?». Posta al termine questa domanda viene particolarmente messa in risalto. Essa esprime un duplice aspetto dell’identità del vescovo, essere presenza santificante di Dio in mezzo al suo popolo, esercitando il sommo sacerdozio, ed essere presenza orante in favore del popolo dinnanzi a Dio, pregando senza stancarsi mai. Nella persona del vescovo Dio incontra il suo popolo e il popolo incontra il suo Dio. Egli è vescovo nel momento in cui stende le sue mani benedicenti sul popolo, ma ancora di più lo è quando, carico del peso di ciascuna delle pecore a lui affidate si prostra orante dinnanzi a Dio. Spesso vediamo il vescovo nel primo atteggiamento, molto più di rado ci è dato vederlo nel secondo, forse anche per suo giusto pudore. Eppure durante la celebrazione, prima di ammirare il vescovo benedicente, lo vedremo prostrato dinnanzi all’altare.

Vorremmo poter fissare in modo indelebile negli occhi e nel cuore questa immagine ed essere certi che egli ogni giorno starà alla presenza di Dio per noi, come Abramo che implora misericordia per Sodoma e Gomorra, come Mosè che intercede per la salvezza del popolo, come Gesù nell’orto prostrato a terra ad implorare il compimento della volontà del Padre, salvezza per l’umanità, che come fuoco divorante lo deve attraversare. Modello del suo gregge, il vescovo è anzitutto modello dell’orante, di ogni credente chiamato a pregare incessantemente. Per tale ragione egli, senza stancarsi mai, terrà fisso il suo sguardo sul volto trasfigurato del suo Signore tendendo l’orecchio del cuore ad ascoltare la sua parola. Questo è il primo modo attraverso cui il vescovo si prende cura del popolo che gli è affidato.

Un altro sì, brucerà nel cuore e sulle labbra dell’ordinando e sarà il suo assillo giorno e notte: «Vuoi edificare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, perseverando nella sua unità, insieme con tutto l’ordine dei vescovi, sotto l’autorità del successore del beato apostolo Pietro?».

L’unità è il sommo bene. Per realizzarlo il Signore Gesù ha offerto la sua vita sulla croce, infatti egli è morto per radunare tutti i figli di Dio che erano dispersi. Durante l’ultima cena, l’unità è il tema ricorrente della sua preghiera sacerdotale. L’unità a costo della vita non può non essere l’assillo e lo stile del vescovo. Del resto mai il vescovo raggiunge la pienezza del suo ministero se non quando presiede per il popolo, assieme al suo presbiterio, l’Eucaristia che è sacramento dell’unità.

La divisione vanifica la croce di Cristo, rende infeconda la pasqua, mortifica l’Eucaristia. Una comunità ecclesiale divisa non potrà mai assolvere al suo compito di segno e strumento di salvezza per l’umanità, un corpo ecclesiale lacerato rende indegna e blasfema ogni Eucaristia. Ad ogni Eucaristia, vescovo, presbiteri e popolo vanno supplici mendicando il bene dell’unità e della comunione. Un vescovo non potrà mai aver pace finché i suoi fedeli, essendo un cuor solo ed un’anima sola, non saranno in grado di spezzare insieme, in semplicità e letizia, il pane dell’unità. Di questa unità egli sarà segno visibile non solo nella sua Chiesa, ma anche della comunione di questa con tutte le Chiese e con la sede apostolica.

Gli sarà anche chiesto: «Vuoi custodire puro e integro il deposito della fede, secondo la tradizione conservata sempre e dovunque nella chiesa fin dai tempi degli apostoli?». In tempi come i nostri, tempi nei quali l’opinione ha preso il posto della verità, in cui valori solidi e assodati si sono trasformati in modi d’essere liquidi e sfuggenti ad ogni presa, custodire puro e integro il deposito della fede non è cosa facile.

Nessun vescovo potrà sottrarsi alla inevitabile tensione tra il conservare e il rinnovare, tra il custodire e l’esplorare, tra la memoria grata e riconoscente e la “creatività” a cui  invita Colui che fa nuove tutte le cose.

Nel dilemma, cui non è possibile sottrarsi, tra il conservare il pensiero forte di una fedele indiscussa e il dar credito all’incalzare di un pensiero debole senza certezze, il vescovo sarà custode di un pensiero evangelicamente umile, custode di verità cortesemente proposte e non imposte, di valori donati come bene prezioso nel rispetto di tutti. Compito del vescovo è quello di custodire e di trasmettere il deposito della fede cioè un insieme di verità, ideali,valori, stili di vita in cui la comunità ecclesiale si è sempre e dovunque riconosciuta fin dai tempi degli apostoli. Questo “sempre e dovunque” non è affatto secondario. Non di rado ci si imbatte in verità dell’ultima ora, in consuetudini locali spacciati come patrimonio comune e ininterrotto della Chiesa, in tradizione dal fiato corto, in un “sempre” che significa solo a memoria d’uomo, in un “ovunque” che ha solo i confini delle nostre parti.

La fede poi si custodisce trasmettendola e la si trasmette rendendola comprensibile a chi la si dona. Torna alla memoria quanto papa Giovanni XXIII diceva nel discorso di apertura del concilio e cioè che compito della Chiesa non è solo quello di custodire il tesoro prezioso della fede ma di dedicarsi senza timore a proseguire il cammino dando forma nuova alle verità di sempre. È ciò che la nostra Chiesa locale ha cercato di fare nell’ultimo sinodo diocesano.
Compito del vescovo è quello di non spegnere lo Spirito, di non mettere a tacere i profeti, di concedere giusta libertà a tutti coloro che si sforzano di pensare e ripensare la fede e poi discernere ciò che viene da Dio ed è patrimonio condiviso.

Infine mi piace pensare che “deposito della fede” non siano solo verità astratte, ma siano uomini e donne la cui fede è incisa nella carne. La fede non è mai una realtà impersonale, ma sempre la fede di qualcuno, è storia di vita, così come Dio non è mai un Dio anonimo ma il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo. Questo è deposito di fede da custodire e tramandare: l’esperienza credente. Mettersi in ascolto dell’esperienza dei fedeli che ci hanno preceduto e di coloro che ancora camminano nella speranza è compito delicato ed esaltante del vescovo l’unico in grado di dire se l’esperienza di fede di ciascuno dei suoi cristiani sia in piena sintonia con quella del Signore Gesù.