Un road-movie sugli adolescenti

“Mi chiamo Maya”, opera prima di Tommaso Agnese, racconta la realtà adolescenziale metropolitana

Raccontare il mondo degli adolescenti, seguendo il loro punto di vista, nel modo più veritiero possibile. Questo il soggetto dell’opera prima di Tommaso Agnese, “Mi chiamo Maya”. Il film nasce dal lavoro documentario del giovane autore romano che, in collaborazione con alcune Asl della capitale, ha condotto una ricerca sulla realtà adolescenziale metropolitana, raccogliendo interviste, storie e aneddoti di ogni tipo. Le più interessanti sono state trasformate nella materia del film e riadattate per questo anomalo road-movie. È il punto di vista degli adolescenti ad essere messo in scena e per questo è praticamente assente ogni figura di adulto. La pellicola mostra, infatti, come il mondo degli adolescenti funzioni da sé e non ci sia praticamente comunicazione col mondo genitoriale né con quello di altre figure più grandi. E ciò che si evince è come queste generazioni siano un po’ abbandonate a loro stesse e alle loro regole quasi “tribali”.

Dopo la morte della madre in un incidente stradale, Niki e sua sorella Alice vengono affidate a un’assistente sociale, interpretata da Valeria Solarino. Decidono, però, di scappare alla ricerca della libertà e soprattutto della possibilità di vivere assieme e non essere destinate a due famiglie affidatarie differenti. Inizia così un viaggio attraverso una Roma conosciuta e sconosciuta, in cui le due ragazze entrano in contatto con mondi adolescenziali molto differenti tra loro: da quello ricco borghese a quello delle ragazze cubiste fino a quello punk. Una traversata “on the road”, dunque, che permette al regista di mettere a fuoco il disagio delle sue protagoniste e degli altri ragazzi con cui vengono a contatto. Per le prime si tratta, soprattutto, di dover affrontare un lutto terribile, per gli altri una condizione adolescenziale che, per ogni generazione è complicata, e che lo è ancora di più nella contemporaneità. Tra baby squillo, droga, soldi facili, infatti, ne viene fuori un ritratto veritiero e un po’ allarmante dei giovani di oggi: persi tra feste, sballo, nessuna guida adulta e pochi ideali forti a cui aggrapparsi. Si avverte un senso di vuoto che li vince e li opprime e rispetto al quale si oppongono nelle maniere più diverse ed estreme.

Chi, come “i figli di papà”, organizza feste nelle case borghesi bellissime, distruggendo tutti i mobili (tanto i genitori non ci sono, persi in qualche viaggio lontano ed esotico); e chi, come la sottocultura rock, si riempie di tatuaggi e piercing. La protagonista più grande attraversa questi diversi mondi giovanili e capisce di non appartenere a nessuno di questi, cercando faticosamente la sua vita per il suo futuro. La solidarietà tra i ragazzi è presente (tutti i giovani che incontrano le due ragazze tentano di aiutarle) ma non sempre è quella che veniva cercata e a volte diventa anche un problema. Come, ad esempio, quando Niki si rivolge a una sua amica per chiederle dei soldi e lei è disposta a darglieli solo se parteciperà a uno spogliarello in una chat line a pagamento. Il regista non dà giudizi morali, non condanna e non assolve, semplicemente lascia che siano i suoi protagonisti a mostrarsi per come sono, realisticamente e senza stereotipi, così che ogni spettatore possa formarsi una propria opinione. E soprattutto possa farsi un’idea di un mondo che esiste, a cui bisognerebbe prestare più attenzione e con cui bisognerebbe cercare di entrare in contatto e comunicare.