Turchia, dopo il fallito golpe il giro di vite di Erdogan. L’Ue mette almeno un punto fermo: no alla pena di morte

La dura reazione del governo di Ankara che segue al tentativo di colpo di Stato preoccupa Bruxelles e Washington. Occorre equilibrio tra stabilità politica e rispetto della democrazia e dei diritti umani. L’ipotesi ventilata di un ripristino del patibolo scuote le istituzioni internazionali al di là della realpolitik. La tutela della vita umana è un “limite invalicabile”

“Ora ci si attende l’arresto di mille Pikachu”. I social sanno essere decisivi se si tratta di chiamare il popolo in piazza, come ha fatto Erdogan venerdì notte, per sventare un “colpo di Stato” (tra virgolette). Ma sanno essere altrettanto espliciti nel denunciare, con una strizzata d’occhio, gli eccessi di un “potere democratico” (anche questo tra virgolette) quando, a golpe fallito, esso si accanisce contro oppositori e presunti tali. Così la caccia ai Pokémon, che va tanto di moda in questa estate 2016 segnata da notizie sempre più inquietanti, diventa uno strumento per segnalare gli eccessi del governo di Ankara. Il tentativo di “putsch” è alle spalle con centinaia di morti e migliaia di feriti, mentre gli arresti e le epurazioni in Turchia si moltiplicano e finiscono dietro le sbarre migliaia di militari, poliziotti, giudici, prefetti. Si teme una ulteriore stretta sulla libertà di informazione e sui diritti civili, mentre all’orizzonte si ventila addirittura il ripristino della pena di morte. E a questo punto – finalmente – l’Ue mette un punto fermo: “Col patibolo la Turchia non entrerà in Europa”.

Stop ai negoziati. Sin dalle prime ore di sabato 16 luglio, quando si era profilata la sconfitta dei reparti dell’esercito insorti contro il presidente Recep Tayyip Erdogan, era iniziata la dura reazione del governo a suon di manette e violenze. L’Europa aveva tirato un sospiro di sollievo, nel senso che l’ordine costituito e il presidente eletto erano al loro posto; ma risultava altrettanto chiaro che la stabilità del Paese euroasiatico era stata salvaguardata con un vulnus alla democrazia e allo Stato di diritto.

La denuncia, pur con toni diplomatici e sotto forma di richiamo alla difesa dei diritti fondamentali, era arrivata da Washington, Bruxelles (Ue e Nato), Strasburgo (Consiglio d’Europa), dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, dal governo italiano e da diversi altri esecutivi europei.

Ora, però, la presa di posizione appare più lucida e ferma: l’eventuale ricorso alla pena di morte – che dovrebbe essere discusso e votato dal Parlamento di Ankara, sottoscritto dal presidente Erdogan e reso operativo dal governo – precluderebbe la via della “casa comune” e lo stop ai negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione europea.

“Prevalga il diritto”. Questo almeno a parole. Perché, come è già stato detto e scritto in tutte le salse, l’Ue ha bisogno della Turchia per fronteggiare l’Isis in Medio Oriente e per arginare il flusso di profughi siriani verso il Vecchio Continente. Occorre però registrare che dal Consiglio dei ministri degli esteri dei 28, svoltosi il 18 luglio a Bruxelles, è giunta una dichiarazione inequivocabile: parlamento, governo e presidente eletti mediante elezioni devono restare al loro posto, ma nel rispetto della stessa democrazia e dei diritti di tutti i cittadini. L’Alto rappresentante Ue per la politica estera Federica Mogherini, e il commissario alla Politica di vicinato Johannes Hahn, hanno affermato:

“Insistiamo sulla necessità di un ritorno rapido all’ordine costituzionale e all’equilibrio dei poteri in Turchia e sottolineiamo che lo Stato di diritto e le libertà fondamentali devono prevalere”.

Parole in linea con quelle del politico più autorevole oggi in Europa, la cancelliera Angela Merkel, che ha espresso “ferma opposizione” al ricorso alla pena capitale, oltre a denunciare “l’ondata di arresti e rimozioni dagli incarichi” di ufficiali e soldati, poliziotti, magistrati, funzionari pubblici. Berlino e l’Ue mostrano di non tollerare la “vendetta”, la violenza e gli arresti “arbitrari”. Dichiarazioni forti, sempre peraltro accompagnate da espressioni più morbide che, in sostanza, riconoscono la Turchia come un partner imprescindibile per l’Ue.

No alla pena capitale. Tra le posizioni esplicite di condanna si annoveraPedro Agramunt, presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Non un capo di Stato né un protagonista assoluto della scena politica internazionale; piuttosto una voce che, per l’incarico ricoperto, può permettersi espressioni senza eccessi di equilibrismo dettati dalla realpolitik. Agramunt condanna dunque il tentativo di sovvertire l’ordine costituito in Turchia, deplora la perdita di vite umane (senza distinzioni, perché una vita è sempre degna di protezione),

richiama il rispetto “sempre e comunque” dei diritti umani

delineati nella Convenzione tutelata dalla Corte di Strasburgo che fa capo proprio al Consiglio d’Europa. Al contempo denuncia l’arresto di magistrati e funzionari dello Stato senza che ne sia oggettivamente provato un coinvolgimento nel golpe. E conclude con la preoccupazione per “l’annunciata discussione” in Parlamento ad Ankara “sul ripristino della pena di morte”.

Confine invalicabile. Dinanzi ai fatti di Ankara e Istanbul, al rafforzamento del potere di Erdogan seguito a uno pseudo-golpe (per quanto imponente e armato, l’esercito turco se volesse imporre un colpo di Stato certo non lo fallirebbe), alle preoccupazioni per la già precaria situazione mediorientale, l’Ue traccia almeno un confine invalicabile mediante il no fermo e deciso alla pena di morte. È molto dal punto di vista della politica, ma – occorre esser chiari – non è tutto.