Turalù: energia, cibo, cultura

A Rieti c’è una fattoria che si propone di raccogliere la sfida del cambiamento e della transizione da un’economia basata sulla produzione intensiva a un’economia qualitativa e di comunità. «Vogliamo creare un centro in cui il valore economico risulti dalla considerazione ed espressione del valore culturale e sociale che ogni processo produttivo e ogni atto di consumo porta con sé».

Ad un anno dalla sua pubblicazione, ci si accorge che i discorsi della Laudato si’ non nascono dal niente e non cadono nel vuoto. Anche lontano da un orizzonte strettamente ecclesiale, c’è un sottobosco di esperienze che in qualche modo, forse inconsapevolmente, ne condividono la prospettiva, ne hanno anticipato una parte, possono rappresentare un tentativo di realizzazione. Sembra il caso della fattoria Turalù, di Ponzano di Cittaducale. A parlarcene è Miguel Acebes, in vista della “Festa della mietitura” programmata nell’azienda agricola per questo fine settimana.

«Il nome della fattoria – ci ha spiegato – ha molto a che fare con il perché l’abbiamo avviata. Questo terreno di 65 ettari era la fattoria dei miei nonni. Quando sono venuti a mancare, era in uno stato si semi abbandono. “Turalù” era il modo in cui la nonna, quando qui lavoravano diverse famiglie insieme, ci chiamava a tavola. Era una sorta di richiamo. Noi eravamo bambini in quel periodo e il ricordo è associato a quel momento dello stare tutti insieme. Per noi è diventato il richiamo verso un senso della condivisione: quella più ampia cui puntavamo quando abbiamo pensato a questo posto».

L’idea non sembra quella di costruire una comunità concreta, attraverso un’economia fatta di relazioni…

Sì, professionalmente veniamo dal campo della costruzione di progetti per la cultura. Io in particolare mi occupavo di progettazione europea. Lavoravo molto con il teatro cercando di mettere in rete diverse realtà. Mi sembra l’unico modo per riuscire ad essere produttivi in modo sostenibile. L’attuale modo di produzione, a tutti i livelli, dall’alimentare al culturale, rinuncia completamente al valore del “collante sociale”, sempre presente nelle fasi precedenti. Quando oggi andiamo al supermercato di “collante sociale” ce n’è poco. Ma ce n’è poco anche sui campi agricoli. Il nostro tentativo è quello di recuperare questi aspetti che il sistema produttivo va perdendo.

Chi osserva con attenzione il panorama sociale, sa che intuizioni come quella di Turalù non sono isolate. Ma sembrano ancora in controtendenza. Credi siano destinate a diffondersi o hanno la vocazione a rimanere esperienze di nicchia, interessanti ma minoritarie?

Se pensassi a una soluzione di nicchia non mi sarei imbarcato in questa storia. Io credo che questa strategia sia l’unico modo per rispondere al periodo di crisi economica che stiamo attraversando. Aumenta la fame nel mondo, nonostante la grande promessa della “rivoluzione verde” degli anni ‘60, 70, quando hanno preso piede la chimica in agricoltura e i pesticidi. Viene allora il dubbio che il punto non sia nella produzione ma nella distribuzione. Volendo costruire un futuro sostenibile non possiamo che passare dalla costruzione di relazioni stabili, che partono dal territorio, ma poi si allargano. Per questo durante la “Festa della Mietitura” faremo un incontro sui grani antichi e su come siano in grado di creare forme di socialità. Verranno altre realtà italiane che hanno fatto progetti su questi temi. Molte piccole realtà che si mettono insieme in un’ottica di filiera, spesso finiscono con l’unire anche i territori. Del resto quale espressione migliore per una dimensione locale dei grani autoctoni?

Il tutto senza abbandonare i progressi utili in agricoltura, semmai recuperando i saperi per reinvestirli in un’ottica contemporanea: rispettosa dell’ambiente, ma che non rifiuta quanto di buono viene dalla tecnica…

Il motivo per il quale venerdì ci vediamo per mietere a mano non è perché rinunciamo alla tecnologia: a mano arriveremo fino dove ce la faremo. Ma se il raccolto è abbondante non rinunceremo certo alla mietitrebbia. Quello che ci interessa è esprimere al massimo il valore sociale che il grano porta con sé. Senza ovviamente trascurare il valore agronomico e nutrizionale del prodotto. Stiamo panificando con i nostri grani e il risultato è molto interessante. Mi viene in mente che il pane tipico di Rieti è sciapo. A molti oggi non piace, perché “non sa di niente”. Ma quando abbiamo panificato con le farine con cui è nato il “pane sciapo” abbiamo capito perché non serve il sale. È un pane dal sapore eccezionale, che viene bene dalla pasta madre.

Turalù ambisce a essere un “centro di produzione sostenibile energie – cibi – culture”…

Sì, facendo leva sulla nostra incoscienza ci siamo convinti che la sostenibilità deve passare da tecniche agronomiche che rispettano la terra, ma anche da progetti in grado di ricucire il territorio, di metterlo in condizione di esprimere se stesso a qualsiasi livello. E la qualità del prodotto deve conoscere un giusto rapporto economico: un prezzo giusto per il consumatore e un giusto ricavo per chi coltiva la terra.

La sostenibilità ambientale porta con sé anche una spinta alla giustizia sociale…

Credo di sì. Quello che stiamo cercando di fare è utilizzare l’agricoltura per ottenere prodotti agricoli, ma anche per cercare di lavorare insieme ad un territorio esprimendo con tutto il territorio le potenzialità. Da questo punto di vista il territorio di Rieti rappresentà una grande opportunità: mentre tutti stanno tornando sui propri passi o facendo inversioni a “U” sulle tecniche di produzione, perché l’unico settore in aumento è quello del biologico, Rieti si ritrova ad avere produzioni biologiche “di fatto”. In questo contesto per i piccoli produttori mettersi in rete è più facile rispetto a territori maggiormente “evoluti”, nei quali i terreni sono consumati da anni e anni di agricoltura convenzionale. Il reatino, a parte la piana, si presenta un territorio vergine. Il territorio collinare e montano o si avvicina l biologico, o è abbandonato, ma assolutamente utilizzabile.

Ci sono molte risorse da recuperare…

Beh, in questo il reatino è assimilabile al molisano: contesti il cui valore consiste nell’essere stati lasciati “tranquilli”…

Dunque è tempo di mietere, di cogliere l’opportunità…

C’è un ragionamento da fare più largo. La mietitura è un pretesto per cercare di capire come costruire un futuro sostenibile. Molte realtà ci stanno ragionando. Stanno nascendo reti nazionali. Dobbiamo impegnarci perché tutto questo sia possibile. Noi ci stiamo provando con tante altre associazioni del reatino.