Trent’anni fa Pippo Fava

Il giornalista ucciso dalla mafia (5 gennaio 1984) perché aveva capito troppo

“Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli, cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d’essere oramai invulnerabili”. Non le mandava certo a dire, Giuseppe (detto Pippo) Fava, il giornalista siciliano scomparso trent’anni fa. Viene ricordato la sera del 4 gennaio, con un memorial intitolato “Tutti in scena – Giuseppe Fava, l’uomo, il suo teatro”, promosso dal Teatro Stabile di Catania e dalla “Fondazione Fava”, che intende riproporre la sua feconda produzione drammaturgica.

Al pari di coloro che nella loro vita hanno affrontato il fenomeno mafioso sempre “a viso aperto”, Fava fu figura esemplare di cittadino e di giornalista. Sempre alla ricerca costante e indomita della verità, nella libertà. Senza paura, con un coraggio che seppe infondere ad un gruppo di giovani che attorno a lui si formarono e che diedero vita – prima insieme a lui e poi continuarono dopo la sua morte, fino al 1996 – ad un mensile che fece epoca, “I Siciliani”. Da quell’esperienza, è stato tratto un film, che andrà in onda su RAI3 la sera dell’Epifania, dal titolo “I ragazzi di Pippo Fava”, di Franza Di Rosa, ideato e scritto da Gualtiero Peirce e Antonio Roccuzzo. Scriveva Pippo Fava nel numero di dicembre del 1983: “Tutto quello che accade a Milano, Roma, Venezia, Torino, nel bene e nel male, appartiene anche ai meridionali, ai siciliani. Quello che accade nel Meridione e in Sicilia, il bene e il male, la paura, il dolore, la povertà, la violenza, la bellezza, la cultura, la speranza, i sogni, appartiene a tutta la Nazione”. Fava aveva compreso, insieme a pochissimi altri – il grande Leonardo Sciascia, ad esempio – che la questione meridionale, all’interno della quale si colloca quella della criminalità, è una grande questione nazionale e come tale doveva essere trattata e vissuta. Dagli stessi meridionali, innanzitutto, che non dovevano sentirsi estranei a quel che avveniva altrove. Perché l’”altrove” riguardava la loro stessa vita.

In questi trent’anni, molte cose sono accadute. La mafia – insieme alla camorra e alla ‘ndrangheta – si è strutturata come meglio non avrebbe potuto. Come dimostrano le numerose inchieste giudiziarie aperte in territori fino a pochi anni fa insospettabili, è diventata la prima industria del paese in termini di “fatturato”. Ha inquinato la cosiddetta società civile – che ha responsabilità almeno pari a quella politica – avvalendosi di un’”ingegneria” economico-finanziaria sofisticata e pervasiva. Fava questo lo denunciava con parole chiare, nella sua ultima intervista televisiva a Enzo Biagi del dicembre 1983: “Un’organizzazione che riesce a manovrare 100mila miliardi di lire l’anno, è in condizione di armare degli eserciti […]. Un terzo di questo denaro resta in Italia e bisogna in qualche modo impiegarlo, riciclarlo, ripulirlo, re-investirlo. Ecco, allora, le banche, questo proliferare di banche nuove, dovunque. Il generale Dalla Chiesa l’aveva capito. Questa era stata la sua grande intuizione. Era dentro le banche che bisognava frugare, perché lì c’erano decine di migliaia di miliardi insanguinati, che vengono immessi dentro le banche e ne fuori-escono per realizzare le opere pubbliche”. Fava fu ucciso dalla mafia, con cinque colpi di pistola, la sera del 5 gennaio 1984, appena sceso dall’auto, mentre stava per entrare nel “suo” Teatro Stabile di Catania. Qualche giorno dopo aver pronunciato queste parole.