Sicurezza, ricostruzione e perdono. La ricetta dei cristiani iracheni per tornare nella Piana di Ninive

A Erbil, in Kurdistan, gli sfollati cristiani di Mosul e della Piana di Ninive seguono le sorti della battaglia in corso nella seconda città irachena. Anche dalla cacciata di Isis da queste terre dipende la loro permanenza in Iraq o la loro partenza. La Chiesa locale, aiutata da diversi organismi come l’Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre) cerca di offrire un futuro più sicuro ai suoi fedeli: sicurezza e ricostruzione per restare. Ma senza dimenticare di perdonare chi ha fatto loro del male e chi li ha traditi, come i loro vicini musulmani

“Santità, la vogliamo qui tra noi. La sua visita è molto importante. Sarà per tutti noi un forte incoraggiamento a restare saldi nella nostra missione di portare Cristo a questo Medio Oriente che soffre. La vogliamo qui tra noi”. Più che un appello è una preghiera. Parole recitate a mani giunte chiedendo a Papa Francesco di venire in Iraq. Il desiderio di monsignor Bashar Matti Warda, arcivescovo caldeo di Erbil, è lo stesso delle decine di migliaia di cristiani sfollati da Mosul e dalla Piana di Ninive. Nella capitale del Kurdistan hanno trovato accoglienza da quando, era l’estate del 2014, Daesh, l’acronimo arabo dello Stato islamico, li ha cacciati dalle loro case senza concedere la possibilità di prendere nulla. Due anni e mezzo di attesa per capire il loro destino: emigrare o restare sperando di ritornare un giorno nelle proprie abitazioni. Una speranza cullata dalle 10mila famiglie cristiane rimaste a Erbil, poche rispetto alle 30mila dell’inizio. Negli ultimi due anni e mezzo l’esodo cristiano dall’Iraq ha visto partire per Giordania, Libano, Turchia, Ue, Canada, Usa e Australia, circa 20mila famiglie.

Frammentazione. Erbil dista da Mosul circa 80 km ma le notizie che arrivano dal “fronte”, dove l’esercito iracheno e peshmerga curdi fronteggiano le ultime sacche di resistenza del Califfo, sono frammentarie. Tuttavia, dice mons. Warda, “le forze irachene stanno avanzando sempre più dentro Mosul, nonostante dispute in corso tra la capitale centrale, Baghdad, e quella del Kurdistan iracheno, Erbil. Sul terreno, infatti, ci sono molte milizie, sciite, sunnite ma anche cristiane. Una frammentazione che complica non poco le cose”.

A mons. Warda le milizie cristiane non piacciono, “sono una pessima cosa” dice senza mezzi termini. “Per quanto ci riguarda, incoraggiamo i nostri fedeli ad arruolarsi nei Peshmerga o nell’esercito regolare iracheno”.

Ad oggi sarebbero 2.800 i militari cristiani inquadrati sotto il controllo curdo ma non possono andare a combattere nella Piana di Ninive, da dove provengono, perché alcune zone della Piana sono sotto la giurisdizione del governo centrale. “Qualche giorno fa – aggiunge l’arcivescovo – si sono verificati anche scontri tra due milizie cristiane”.

Cultura estremista. Sul campo di battaglia la situazione resta difficile ma in qualche modo segnata, con l’Isis che batte in ritirata da Mosul. E da Erbil sono tanti gli spettatori interessati, in primis i cristiani sfollati. Circa sei mesi fa l’esercito iracheno ha liberato i loro villaggi nella Piana di Ninive, tra questi Qaraqosh, Karmaleis, Bertella, Batnaya, Telluskof, Alqosh, Tilkeif, Baqofah. “Dopo la cacciata dei miliziani dell’Isis molte famiglie sono rientrate ma – racconta mons. Warda – hanno trovato le loro case distrutte, incendiate e devastate. Il 90% delle abitazioni cristiane saccheggiate. Batnaya è stata praticamente distrutta. Le chiese, i santuari, i luoghi di culto come i monasteri profanati, incendiati”. Impossibile per ora fare ritorno anche perché, avverte il presule caldeo,

“la battaglia per la liberazione di Mosul non è ancora finita.

In città sono molti gli abitanti filo Daesh e non sarà facile tornare a vivere tutti insieme anche dopo la caduta militare del Califfo. C’è una mentalità, una cultura estremista tutta da sconfiggere e il Governo iracheno non è in grado di porvi rimedio. Sarà dunque difficile per i cristiani che ritorneranno nelle loro case e villaggi fidarsi di nuovo dei loro vicini musulmani”. I primi, dicono gli sfollati di Erbil, “a tradirci e a rubarci in casa dopo che siamo fuggiti”.

Sicurezza, ricostruzione e… perdono. Eccola, allora, la grande sfida che attende la Chiesa: “Aiutare i cristiani a restare, a non emigrare. Aiutare la popolazione cristiana nei suoi bisogni primari è utile ma occorre garantire loro un futuro sicuro”. “Sicurezza e ricostruzione”, le due parole magiche che mons. Warda ripete come un mantra. “Sono queste le due priorità da ricercare sopra ogni cosa e che se soddisfatte potranno metter i cristiani in condizione di rimanere in Iraq. Due anni fa – ammette – non avevamo tutti questi problemi ma solo gli sfollati e Daesh”. Oggi gli attacchi alla minoranza cristiana si sono fatti ancora più pericolosi e subdoli. La denuncia dell’arcivescovo di Erbil è netta: “Sicurezza: stanno attentando alla nostra identità. In passato ci sono stati screzi con la minoranza sciita Shabak, appoggiata da Baghdad e dall’Iran, che con grandi somme voleva acquistare case dei cristiani a Bertella alterando con il denaro la demografia del posto. Oggi siamo preoccupati per la guerra di Mosul. Il timore che la popolazione in fuga da Mosul ovest si possa sistemare – come auspicato dall’ex-Governatore della città Athel al-Nujafi – nei nostri villaggi disabitati come Karamles, Bertella, Qaraqosh è forte”. Poi ricostruzione. L’esodo cristiano si ferma anche riedificando quanto distrutto. “Come Chiesa caldea abbiamo deciso di rialzare il villaggio di Telluskof. Ottanta famiglie sono già tornate. Stiamo usando solo somme della Chiesa. Non abbiamo avuto fondi statali. Telluskof sarebbe il modo migliore per ripartire e per incoraggiare i cristiani a restare”. Ma c’è un ultimo punto che mons. Warda tiene a evidenziare: “Non abbiamo paura ma siamo solo preoccupati per il futuro. Non è la prima volta che i cristiani iracheni sono sotto attacco. Ci siamo sempre rialzati, perdonando. Faremo così anche stavolta”.