Tempo di semina per il pastore della modernità

Montini, senza condannare i metodi pastorali fino ad allora seguiti, esemplificò alcuni orientamenti che avrebbero dovuto caratterizzare l’attività delle parrocchie.

Nuovo dialogo, nuova evangelizzazione, nuova pastorale. La secolarizzazione della società milanese, allora industriale e operaia ma già segnata da fermenti e da innovazioni che porteranno ai grandi cambiamenti epocali ancora in corso, deve essere affrontata dalla Chiesa non con il pessimismo (a torto rimproverato a Montini da tanti facili e faciloni critici, anche in campo ecclesiale), ma con il realismo cristiano di chi sa che i processi di modernizzazione e di modernità rappresentano una sfida costante e insieme uno stimolo ininterrotto per una comunità ecclesiale che sappia leggere, con fiducia e speranza, i segni dei tempi.
Il rapporto con la città deve infatti essere improntato dalla constatazione che la Chiesa è viva e magnificamente idonea a incontrarsi con il mondo moderno e che Milano è buona, intelligente, generosa, suscettibile di progressi spirituali.
Quello della Missione è stato un tempo di semina in terreni sempre più aridi, rocciosi, impermeabili, quali erano quelli della società milanese; un tempo che richiede non un seme diverso, ma piuttosto seminatori all’altezza che non impongano, ma sappiano attendere che lo Spirito faccia il suo corso. In questa attesa, fiduciosa e coraggiosa insieme, la Chiesa milanese deve sapere che la parrocchia raggiunge ormai solo una porzione molto piccola del gregge, malgrado i fiorenti oratori, che le associazioni cattoliche, che si sono spese in modo encomiabile per la Missione, sono sempre più intente a curare la loro formazione interna che a lavorare nel mondo esterno. Così la Milano cattolica non ha avvicinato abbastanza la Milano dei lontani.

I risultati, positivi, possono allora accompagnarsi – e non c’è contraddizione in questa affermazione – a un senso di smarrimento in non pochi prevosti che scoprono, dopo tanto impegno profuso con generosità e disinteresse, i limiti della pastorale fino ad allora praticata. Avvertire questa insufficienza significa – se non si vuole vanificare le disponibilità che la Missione ha comunque fatto emergere – impostare una nuova evangelizzazione con quello stile rispettoso e dialogico che, pur con limiti e deficienze, si era cercato di affermare con i giorni della Missione.
Montini, senza condannare i metodi pastorali fino ad allora seguiti, esemplifica alcuni orientamenti che dovrebbero caratterizzare ora l’attività delle parrocchie: «La benedizione delle case fatta bene, con devozione e gravità, mediante un momentaneo contatto sacro con le famiglie visitate; così lo schedario parrocchiale dovrà essere completato e conservato in ordine; così la Messa festiva dovrà avere un’assistenza viva e partecipata dai fedeli, e dare a tutti l’impressione che vogliamo una nuova educazione di tutti al culto sacro e liturgico».

Indicazioni e propositi pastorali – si pensi solo al tema liturgico che sarà tra quelli centrali del Concilio – che hanno bisogno anche, come è avvenuto almeno nelle intenzioni durante la Missione, di una maggiore unione e collaborazione tra parroci e popolo, tra sacerdoti e fedeli, tra clero e associazioni cattoliche. Afferma l’Arcivescovo: «La vita religiosa deve sempre più accendersi e dilatarsi nella ricostruzione della comunità cristiana nella quale i fedeli, superata la fatica dell’organizzazione, ed assicurata la loro docile adesione alla guida unica della comunità, possono essere, non più di peso ma di validissimo aiuto per ogni buona iniziativa della comunità stessa».
Il discorso-bilancio dell’Arcivescovo in Duomo si conclude con due impegni concreti: il pellegrinaggio a Lourdes nel giugno del 1958 per recare alla Madonna l’espressione del nostro ringraziamento, delle nostre promesse e della nostra preghiera perché Milano resti sempre fedele alla sua vocazione cristiana e la costruzione, in una città dove l’espansione urbanistica rivela la crescente carenza di infrastrutture non solo civili ma anche religiose, di una nuova chiesa, realizzata con le offerte personali dei sacerdoti milanesi, chiesa che dedicata al santo Curato d’Ars.

Concretamente poi vengono riprese le indicazioni che l’Arcivescovo aveva autorevolmente indicato nel discorso del 1° dicembre aggiungendovi un’iniziativa che intende coinvolgere tutte le parrocchie milanesi: «La celebrazione della Prima comunione in un data unica per tutti con una funzione ben preparata. Pensate, 20 mila famiglie, 60 mila persone direttamente interessate; vorrebbe dire fare nuovamente sentire alla grande metropoli la presenza di Dio e il Suo amore per tutti i figli suoi».
Possono sembrare, queste, proposte minime e anche minimaliste e non sufficienti ad avvicinare i lontani e a rinvigorire la fede dei vicini. Il bilancio spirituale della Missione non poteva certo essere conteggiato in alcuna statistica. E nessuno poteva prevedere, né l’Arcivescovo, né i suoi prevosti, il tempo del raccolto. La Missione, fuori da ogni tentazione apologetica (per questo erano state scartate le predicazioni in piazza che pure non pochi ambienti ritenevano più opportune) e propagandistica, partiva dall’esigenza di una pastorale diversa, più comunitaria, più espressione di una Chiesa in dialogo con tutti. Una pastorale coerente – e quindi innovativa in quella fine anni ’50 – con quel che è stato il filo rosso di tutta la Missione milanese. Ed è da questa Missione che il dialogo tra la Chiesa milanese e la modernità prende avvio. Il successivo pontificato di Montini lo conferma.

L’ultimo atto della Missione è costituito, dal 27 al 29 giugno, dal pellegrinaggio di ringraziamento a Lourdes. L’Arcivescovo riassume risultati, propositi, attese dell’avvenimento ormai alle spalle. «La Missione ha cercato di riaffermare il rapporto religioso, essenziale e reale, che intercede tra noi, uomini e cristiani, e Dio… La religione, la religione vera è stata l’argomento della nostra Missione…. Abbiamo riconosciuto e riconfermato questo felicissimo rapporto con Dio, proprio come gente del nostro tempo, gente tormentata dal dubbio e dalla negazione, sopraffatta dalla profanità e dall’impegno terrestre, logorata dalle cento crisi dello spirito moderno…. Abbiamo rifatto uno sforzo di chiarezza spirituale e di energia morale… abbiamo ridato senso e calore alla nostra fondamentale preghiera “Padre nostro, che stai nei cieli…”; abbiamo riscoperto la fratellanza meravigliosa che da ciò ne deriva e fonda la società visibile e spirituale insieme che è la Chiesa; abbiamo risentito, nei suoi molteplici impegni, nei suoi interiori impulsi, nella sua incomparabile dignità, nella sua inesausta epifania di bontà e di bellezza, la nostra semplice e sublime vocazione cristiana. Questa vocazione cristiana vogliamo qui riconfermare».

Antonio Airò