La santità di Montini. Un modello di vita cristiana

Montini ha testimoniato una fede limpida e incrollabile nel Signore e si è fatto compagno di viaggio dell’umanità.

La santità del Papa
Quando proclama la santità dei suoi figli, la chiesa li addita a tutti i fedeli come modelli di vita cristiana per la fedeltà con cui hanno vissuto il messaggio evangelico e per l’esemplarità con cui hanno risposto alla loro vocazione. Ci si può chiedere tuttavia se un Papa possa davvero essere proposto come modello per tutti i fedeli. Apparentemente il ministero del tutto particolare che egli è chiamato ad esercitare nella chiesa rende unica la sua condizione. Non sembra dunque possibile assimilare a quella di un Papa la condizione in cui i fedeli e la maggior parte dei pastori vivono la propria vita cristiana e rispondono alla loro vocazione.
Eppure nella storia della chiesa il riconoscimento della santità dei pastori – papi, vescovi e preti – è un fenomeno costante. Ancor prima che venissero messe a punto le rigorose procedure attraverso le quali oggi la chiesa giunge a proclamare pubblicamente santi e beati, il popolo cristiano ha riconosciuto spontaneamente la santità dei pastori che all’annuncio del vangelo e alla cura pastorale della comunità hanno dedicato la loro vita. La venerazione per i pastori esprime la volontà di custodire la memoria di coloro dai quali i fedeli hanno ricevuto il dono della fede, di manifestare la gratitudine per la loro dedizione al servizio della comunità e di tener viva con loro una comunione spirituale che la morte non può spezzare.
Al tempo stesso, indicando nei santi i modelli da seguire, la chiesa dice a tutti i pastori che il ministero non si esaurisce nel diligente svolgimento dei compiti loro affidati, ma porta in sé un’esigenza di santità che dà forma compiuta al loro servizio alla chiesa. La chiamata alla santità, come ha ricordato il Vaticano II, vale per tutti e per ciascuno assume una forma particolare. La Costituzione Lumen gentium sottolinea al riguardo che «nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adorando in spirito e verità Dio Padre, camminano al seguito di Cristo» (LG 41). E, dopo aver enunciato il principio che l’unica santità può essere realizzata in forme assai diverse tra di loro, il documento conciliare subito aggiunge che «in primo luogo i pastori del gregge di Cristo devono, a immagine del sommo ed eterno sacerdote, pastore e vescovo delle anime nostre, compiere con santità e slancio, umiltà e forza il proprio ministero: esso, così adempiuto, sarà anche per loro un eccellente mezzo di santificazione» (ibidem).
In che senso dunque la santità vissuta da un Papa può essere un modello per tutti i cristiani? Ciò è possibile perché anche un Papa è e rimane prima di tutto un cristiano, un credente, un discepolo del Signore. Ed è questa radice comune della santità che tutti i fedeli possono riconoscere anche in chi ha vissuto in uno stato di vita e in un ministero completamente diverso dal proprio. D’altra parte, non si deve dimenticare che la santità è sempre incarnata in una concreta forma di vita, in un determinato servizio alla chiesa e in una singolare storia personale che non è uguale a quella di nessun altro. A tutti i fedeli, dunque, Paolo VI è presentato come un credente, che ha testimoniato una fede limpida e incrollabile nel Signore Gesù e, al tempo stesso, si è fatto compagno di viaggio dell’umanità immersa in una cultura che rendeva spesso difficile riconoscere i segni della manifestazione di Dio. Ai pastori Papa Montini offre l’esempio di una dedizione senza riserve al servizio della chiesa, anche nei momenti più tempestosi della sua vita e a prezzo di grande sofferenza.

Servire la Chiesa
Chiunque voglia individuare le linee della santità di Paolo VI non può fare a meno di ricordare che il servizio alla Chiesa ne rappresenta una dimensione fondamentale. Nel Pensiero alla morte il Papa afferma che questo è stato il motivo unificante di tutta la sua vita: «per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto», confessa Paolo VI. L’amore per la Chiesa è stata infatti la ragione della sua scelta di vita: «fu il suo amore che mi trasse fuori dal mio gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio».
Come accade a tanti pastori, anche per Paolo VI questo ministero ha spesso incontrato l’incomprensione. Nel momento in cui il suo cammino terreno volge al termine, egli manifesta perciò la volontà di fare della sua morte un estremo dono d’amore alla Chiesa e il desiderio che la Chiesa sappia quale è stato il principio ispiratore della sua vita e del suo servizio. «Vorrei che la Chiesa lo sapesse; e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore, che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare. Vorrei finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sue sciagure e nelle sue sofferenze, nelle debolezze e nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici, e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità».
Nella meditazione di Paolo VI sul ministero di pastore della Chiesa universale che gli è stato affidato la figura di Pietro occupa ovviamente un posto di primo piano. Oltre che come modello di esercizio dell’autorità ecclesiale, la figura dell’apostolo è presentata anche come paradigma del pastore che, chiamato a guidare il gregge, deve a sua volta lasciarsi guidare dal Maestro che lo chiama a seguirlo. Paolo VI ritorna con insistenza sul passo evangelico nel quale Gesù annuncia a Pietro che, quando sarà vecchio, sarà condotto da un altro dove lui non vuole. Proprio in questa condizione Pietro diviene il modello del pastore che, dopo aver confessato il suo amore per Gesù e aver ricevuto il compito di pascere il gregge, non può far altro che affidarsi totalmente a lui e lasciarsi condurre su una strada che non conosce, ma che lo porterà a realizzare una perfetta comunione di destino con il Signore, fino al sacrificio della vita.
Se l’amore per Cristo rappresenta secondo Paolo VI l’asse portante della vita spirituale di chi è chiamato al servizio pastorale nella Chiesa, questo amore deve tradursi in amore per la Chiesa che Cristo ama. «Passa attraverso Pietro – scrive Paolo VI in un appunto dell’agosto 1963 – la carità di Cristo verso l’umanità». Lo stesso vale per chi a Pietro è stato chiamato a succedere: egli deve comprendere sempre meglio il mistero di carità che in lui e attraverso di lui edifica la Santa Chiesa. Deve «capire e lasciarsi condurre, trascinare anzi dal medesimo movimento di dedizione e di amore».

Il valore dell’umano
Nonostante le lodevoli intenzioni da cui era mossa, l’agiografia ha spesso reso un pessimo servizio alla causa della santità cristiana. Una presentazione oleografica dei santi e un’idea disincarnata della perfezione da loro vissuta hanno infatti provocato frequentemente il rifiuto di un ideale di vita percepito come incapace di apprezzare il valore della realtà umana e dell’impegno nel mondo.
Quando ci si accosta a Giovanni Battista Montini ci si rende conto che l’ispirazione religiosa da cui è stato guidato il suo agire non è mai andata a scapito della capacità di riconoscere l’importanza dell’umano in tutte le sue dimensioni: l’intelligenza che si interroga sul mondo e la scienza che ne scruta i segreti, la cultura e l’arte che nobilitano e rendono bella la vita umana, la capacità di dare forma al mondo attraverso il lavoro e di costruire una convivenza sociale pacifica e prospera attraverso l’impegno politico. Anche su questo punto il Pensiero alla morte documenta lo sguardo stupito e grato di Paolo VI sull’uomo e sul mondo: «questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e in gloria: la vita, la vita dell’uomo! Né meno degno d’esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’uomo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità».
L’atteggiamento dialogico che ha ispirato l’azione pastorale di Paolo VI nasce da questo apprezzamento per ogni essere umano, per l’impronta che il Creatore ha impresso nella sua vita e per la destinazione che essa porta con sé, così come per il mondo creato che non è caotico e dominato dalla casualità, ma riflette la sapienza del Verbo divino per mezzo del quale è stato fatto.
Il servizio pastorale alla Chiesa ha dunque come ultimo scopo che la Chiesa possa compiere il suo servizio all’umanità. È questo il tema che Paolo VI propone con forza al termine del Vaticano II, nel discorso rivolto all’assemblea conciliare il 7 dicembre 1965. «La Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dell’uomo, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta: l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé, l’uomo che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle sue innumerevoli apparenze; si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure uomini, tutti pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi, l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica, e l’uomo com’è, che pensa, che ama, che lavora».
Il Concilio – sottolinea Paolo VI – ha raccolto la sfida lanciata alla Chiesa dall’umanesimo laico, che intende realizzare una pienezza umana indipendentemente da Dio, e ha proposto con forza, ma senza lanciare anatemi, l’umanesimo cristiano come alternativa. «La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo».

Angelo Maffeis – presidente dell’Istituto Paolo VI