Rieti: rispondere al declino puntando su se stessi

I tagli e gli accorpamenti di questi giorni richiedono che Rieti e provincia dimostrino la capacità di far fronte in maniera positiva ai problemi, per ricostruirsi un ruolo restando sensibili alle opportunità positive e alle identità offerte dal territorio

In questo tempo di tagli e dismissioni, l’ipotesi era nell’aria. La notizia dell’accorpamento della Prefettura di Rieti con quella di Viterbo non è arrivata del tutto inaspettata. Ma ha fatto comunque un certo effetto.

Il clima in città pare quello di una definitiva sconfitta, di un territorio al crepuscolo. Appresso alla Prefettura ci sono la Questura, il Comando dei Vigili del Fuoco e chissà cos’altro. Uffici e posti di lavoro che si aggiungono ai tanti persi finora.

Per qualcuno è semplicemente l’attacco finale, l’ultima cannonata sulle nostre povere mura. Per altri l’annuncio ha il sapore di un brutto risveglio, il gusto amaro di un sogno di gloria interrotto.

Il coro di queste voci suona come un rassegnato mugugno. Forse perché si sta esaurendo l’euforia “anti-casta”. L’idea di istituzioni solo clientelari, inefficienti e sostanzialmente inutili, tutto a un tratto sembra infantile e ridicola.

La mezza abolizione delle Province pare aver diffuso una consapevolezza nuova: pure quando funziona male lo Stato serve. E quando s’inceppa è senz’altro meglio riparare i guasti che buttare tutto alle ortiche. Almeno non ci si trova con personale da ricollocare, funzioni da riorganizzare, servizi da riaffidare.

Fa un certo spavento il procedere “all’italiana” delle riforme. Sembrano pensate per navigare a vista, per aggiustare il tiro secondo il caso invece di seguire un progetto preciso. Ma è inutile lamentarsi per l’approccio cialtrone e approssimativo. Con la protesta si riuscirà senz’altro a tamponare qualche deriva, ma nel suo insieme la trasformazione sembra destinata a compiersi, perché legata a condizioni storiche ed economiche più che ai progetti di questo o quel Governo.

Conviene allora fare appello al senso di realtà e cercare di sopravvivere alla transizione. La situazione politica, economica e sociale di Rieti non è più quella di ieri. Lo sguardo sulla città capoluogo e sulla sua provincia non può che cambiare.

Ma non per questo dobbiamo ingoiare a cuor leggero la fusione a freddo con Viterbo. La diffusa preferenza per Terni da parte di cittadini, amministratori e sindacati sembra giustificata. Giocano a favore ragioni logistiche, storiche e culturali. Ben venga lo strumento del referendum per correggere il tiro e spingere la Valle Santa e i suoi dintorni verso l’Umbria. Ma è una ricerca del male minore. Non riesce a nascondere la disperazione di un territorio che continua a guardare fuori di sé, alla ricerca di appigli, appoggi, dipendenze.

Non dovremmo invece discutere di come ritrovare dall’interno le forze e la fiducia? Il ritrarsi dello Stato potrebbe essere la volta buona per smetterla con il popolo bambino, sotto tutela, ovunque guidato e accompagnato. Potrebbe essere l’occasione per cominciare ad essere un territorio adulto, capace come tanti altri di fare leva su di sé, sulle proprie risorse, sulla propria storia e intelligenza.

Che Rieti non manchi di nulla lo si dice sempre e ovunque, ma nei fatti non sembriamo crederci fino in fondo. Per questo vale la pena di insistere sui nostri beni ambientali, artistici, culturali. La Prefettura e la Provincia possono chiudere o traslocare, ma non le nostre montagne, le nostre acque, i nostri santuari, la nostra storia. Non si tratta di chiudersi in se stessi, ma di guadagnare quella «matura misura di sé» che dà prospettiva e forza al dialogo con le realtà circostanti.

Terni, sì, ma anche Roma e l’Abruzzo. Tante direttrici aperte in una zona di frontiera che non subisce la storia, ma valorizza la propria posizione e le proprie risorse senza complessi e senza distrazioni.

È la capacità di produrre una propria economia e una specifica cultura a giustificare il grado di “capoluogo”, a rendere necessarie le istituzioni, ad imporre il bisogno di servizi. Tutte cose che scivolano tra le dita dei territori subalterni, inetti a produrre un proprio punto di vista, a dare corpo alle proprie ambizioni.

Sono cose che si ottengono ritrovando innanzitutto il senso della “Comunità”. Non in modo astratto, ma secondo concrete linee di azione, su terreni di lavoro condivisi, allargando la partecipazione alle iniziative che già funzionano. Senza farsi prendere da un esagerato ottimismo, ma senza neppure cedere all’idea di essere povere vittime di un destino avverso.