Rieti, culture di Chiesa

Qual è il ruolo della Chiesa nella costruzione della cultura cittadina? È lievito per la società, incide sul contesto, o si trova in un momento di difficoltà e attende un ripensamento? Abbiamo ragionato sul tema chiedendo aiuto a Padre Mariano Pappalardo.

Padre Mariano, quanto è cambiata la figura del sacerdote da un punto di vista culturale, in generale e a Rieti in particolare.
Non so dire approfonditamente dell’evoluzione di questo rapporto con la città. Occorrerebbe chiedere a qualche prete reatino. Sono però convinto che tra il clero reatino – anche se con le dovute eccezione – ci sia una emergenza culturale. Sia per quanto riguarda i sacerdoti che vengono da fuori, sia per quanto riguarda il clero autoctono. Non vedo un amore della cultura, del sapere, del riflettere, del confronto, dell’approfondimento. Né per il piacere di accrescere il proprio sapere, né per rendere il proprio servizio un servizio di qualità. Viviamo un tempo in cui la cultura media della popolazione è cresciuta. La maggior parte delle persone ha almeno un diploma, cosa che in passato non era. È un fenomeno strano che quanto più aumenta la cultura della gente, tanto più diminuisca la cultura del clero. È chiaro che in questo modo il clero non riesce a mettersi sulla stessa lunghezza d’onda della gente. Non perché i preti forse non sanno dare risposte adeguate alle domande – le più disparate – che emergono dal tessuto sociale, dalla comunità, dal mondo di oggi, ma in maniera ancora più decisiva perché il clero attuale non riesce più a porre le domande giuste, domande intelligenti a cominciare da se stesso. Non so se qualcuno lo ha notato, ma a volte nelle interviste sono molto più intelligenti le domande che non le risposte. Si ha l’impressione che si vogliano rifuggire le domandare per la paura di dover affrontare la fatica necessaria a trovare possibili risposte. Ci si accontenta del minimo, di luoghi comuni, di frasi fatte, di modi di dire che forse non convincono neppure chi li pronuncia.

Cosa comporta questa situazione?
Al di là del rapporto prettamente culturale, questo ha a che fare con una difficoltà che si esprime nell’incapacità di catturare l’interesse, di convincere, di avvincere, di conquistare, di attrarre, quasi di sedurre. Il nostro modo di parlare, le nostre argomentazioni, il più delle volte cadono nel disinteresse, nel vuoto del “non ascolto”. Non perché gli uomini del nostro tempo rifiutino a priori una riflessione o un confronto di tipo spirituale, ma semplicemente perché sentono che determinate parole o determinate riflessioni sono totalmente scollate dal loro vissuto, e non portano con sé la capacità di aprire la mente, di dilatare i cuori. Oggi molto spesso la religione è percepita nell’ottica del restringimento, delle cose che si chiudono, degli ambienti angusti. Su qualsiasi argomento si possa intavolare la discussione, se interviene un ecclesiastico, un credente, immediatamente la gente si mette sulle difensive, nell’atteggiamento di chi ha l’impressione che: «ecco, adesso questo ci mette dei paletti, ci rinchiude, ci dirà dei no». La fede invece, il Vangelo, è una forza che spalanca. Nel momento in cui prende la parola un credente, se questa parola non ti allarga il cuore, non ti apre la mente, è difficile pensare che sia la parola di un credente.

Ma non è sempre stato così…
Se noi ci guardiamo in dietro, abbiano una fiumana di uomini di cultura – laici o ecclesiastici, santi o meno – che hanno fatto la storia della filosofia, dell’arte, del pensiero. Persone che comunque hanno contribuito a far crescere la cultura, a portare l’umanità e il pensiero occidentale là dove è oggi. Forse noi non siamo all’altezza dei nostri padri. Non siamo più capaci di interloquire con la cultura contemporanea, con i filosofi, con gli uomini di pensiero, con gli scienziati, con gli artisti, e sembra ormai che parte del clero possa solo intessere relazioni con quelle poche vecchiette che vengono alla messa quotidiana. E forse con qualche ragazzino che – bontà sua – sopporta le ore di religione o gli incontri di catechismo.

Tra le figure che sembrano mancare oggi c’è quella del sacerdote che sia insegnante, ma non di religione. Di intellettuali – per rimanere nell’orizzonte locale – come Benedetto Riposati, ma anche come Giovanni Olivieri. Più in generale sembra mancare da parte della Chiesa la capacità di fare “produzione culturale”: nell’architettura, nell’arte, nella letteratura, nella musica.
L’impoverimento culturale ha un peso notevole. Se mi sento culturalmente meno attrezzato del mio interlocutore è chiaro che non andrò a cercarlo, non entrerò nel gioco dell’interlocuzione: mi sento inferiore. Ecco allora la scappatoia di rinchiudersi nei sacri recinti, in cui comunque si ha un ruolo che gli altri devono rispettare. D’altra parte credo che ci siano anche altri aspetti di questo rinchiudersi nel privato, nel proprio piccolo mondo, nei propri interessi: un non voler fastidi per restare nella routine fatta dall’amministrazione dei sacramenti, dai rapporti quotidiani abitudinari, senza cercare di volare alto, di saper cogliere le sfide, o di imbarcarsi in avventure che possono sembrare anche più grandi di noi. Quando fai qualcosa, tutti ti guardano e dicono: «ma questo cosa pensa, dove vuole andare», e quindi si rientra dentro nel gregge per non avere problemi.

Una rinuncia che però apre ad altri problemi…
Sì, perché la perdita di interesse è molto rischiosa, è mortifera. L’interesse è qualcosa che ti sta dentro. E nel momento in cui non si ha interesse per il mondo dell’arte e della cultura, per il mondo del lavoro e della politica, vuol dire non solo che il mondo non penetra dentro di te, ma anche che tu non penetri dentro il mondo. E quindi il credente, il prete e il mondo camminano per vie parallele, che non si incontreranno mai. Lo scollamento è per esempio evidentissimo tra la fede e l’arte. È secoli che arte e fede percorrono strade parallele e non si incontrano. La fede fa i suoi ragionamenti, l’arte non prende quasi più in considerazione la rappresentazione del sacro. E quando è costretta a farlo, ad esempio per la costruzione di nuove chiese, spesso i risultati sono deludenti.

Come se ne esce?
Forse la soluzione dovrebbe passare nel ripensare i seminari. Il seminario dovrebbe essere il luogo in cui ogni espressione del pensiero, dell’emozione, del riflettere, dell’agire dell’uomo dovrebbe trovare riverbero e coltivazione. Io non credo che un seminario possa sfornare dei bravi sacerdoti se ha fornito loro solo un po’ di formazione spirituale e gli ha dato un’infarinatura teologica. O anche una grande formazione teologica e spirituale, tanto da avere un clero santo e teologicamente preparato. Il clero oggi va preparato da tanti altri punti di vista. Nei seminari bisognerebbe ricominciare ad insegnare la musica – la buona musica – e ad insegnare la storia dell’arte. Perché un sacerdote deve anche sovraintendere alla custodia di beni architettonici e artistici di cui tante volte non conosce neanche il valore; dovrebbe avere la capacità di conoscere meglio la storia, la politica, tutte le sfaccettature della vita sociale. Questo per dare una parola significativa dentro nel dialogo che avviene oggi nel mondo a più livelli. In seminario bisognerebbe veramente che la formazione fosse a 360°. Imparare a parlare, con un po’ di eloquenza, un pizzico di retorica, con quella capacità di rendere la propria parola accattivante, aperta, cordiale, interessante. Bisognerebbe che nei seminari si studiasse un po’ di pedagogia, di psicologia… il sacerdote oggi non può essere solo specialista nelle cose di Dio. Perché non sarai mai specialista nelle cose di Dio se non sei anche specialista nelle cose dell’uomo. È chiaro che un sapere enciclopedico oggi non può essere approfondimento di tutto. Ma ci vuole una conoscenza generale, globale: questo fa l’uomo di cultura, perché lo rende capace di interloquire a 360 gradi, gli dà la possibilità minima di rapportarsi con tutti. Certo, è un compito arduo. Ecco perché probabilmente occorre ripensare la formazione del clero, forse dilatando i tempi, forse modulandola in maniera diversa. Questo è importante soprattutto nel momento in cui entrano nelle file del clero persone che vengono da altri mondi, altre mentalità, altri modi di pensare e che comunque vivendo la nostra situazione debbono imparare a conoscerla. Altrimenti daranno risposte che non sono adeguate per questo nostro modo di pensare e di essere.

Questo atteggiamento di rinuncia corrisponde anche un po’ all’adeguarsi del clero ad una deriva “laicista”, che vuole la dimensione ecclesiale separata dalla sfera “civile”?
Sì, probabilmente c’è anche questo aspetto.

Eppure sembra un tema poco affrontato.
Sì, è poco affrontato. Secondo me perché non se ne coglie l’urgenza. Giocano due fattori: da una parte una predisposizione istintiva, umana: qualcuno ce l’ha dentro e qualcun altro no. Ma a maggior ragione chi non ce l’ha dovrebbe far la fatica di acquisirla. Dall’altra parte forse, c’è il pensare che certi compiti non spettano ai sacerdoti, ma competono al Papa, al vescovo, a personaggi particolari. In fondo oggi la Chiesa ha visibilità per quelle punte dell’iceberg che emergono. E invece c’è un tessuto capillare da valorizzare, che è stata sempre la forza della Chiesa, e che però oggi rischia di disgregarsi. Un tempo il parroco – insieme al medico o al farmacista – era un riferimento culturale della società. Oggi? È molto più raro! Questo forse spinge il clero a dire: «ma in fondo la gente non ha me come referente culturale, non aspetta me, ma qualcun altro. Quindi getto la spugna, non mi ci metto neanche». È chiaro: è una fatica. In qualche modo ti espropria, ti mette in crisi, ti sconquassa dal di dentro. È molto più semplice starsene tra il vestibolo e l’altare. Lì stai a casa tua. Mentre praticare la piazza, oggi, significa essere uno tra gli interlocutori. Forse uno dei problemi che noi preti abbiano è questo: o siamo al centro dell’attenzione, o siamo i primi della classe, o non vogliamo neppure esserci. Non accettiamo di essere uno tra i tanti. Ma si può essere uno tra i tanti ed avere comunque una parola unica da dire. Che nessun altro potrà dire.

Ma questa sarebbe la condizione generale: oggi la stessa Chiesa è una voce tra le tante. La condizione del sacerdote ne discende naturalmente. Eppure la storia repubblicana ci ha mostrato figure di uomini di Chiesa interventisti e variamente presenti nel dibattito pubblico come Luigi Sturzo o Giuseppe Dossetti, ma anche Lorenzo Milani o Tonino Bello. Oggi sembra esserci un maggiore vuoto da questo punto di vista.
Se ciascuno nel suo piccolo, con le proprie possibilità, fosse in grado di assumere questo stile, la Chiesa, il Vangelo, la fede avrebbero non solo una parola da dire, ma una parola che gli altri cercano e rispettano. Quanto potrebbe essere vivificante questo atteggiamento in grandi comunità parrocchiali, nelle grandi città, nelle periferie, nei borghi, nei paesi? Non solo per la vita della comunità cristiana, ma perché essa sarebbe in grado di donare vita alla comunità degli uomini in mezzo alla quale vive.

Forse è più facile nel borgo o nel paesello che in città…
Sicuramente è così, però penso che anche nelle grandi città persone capaci, con esperienza, in grado di creare una rete di collaboratori possono diventare una presenza significativa. È successo negli anni ‘70 e ‘80 in certe esperienze parrocchiali nelle periferie di Milano, per esempio, con sacerdoti molto impegnati socialmente. Le comunità parrocchiali erano veramente comunità di base, elementi di fermento, di animazione del quartiere, in prima linea a livello sociale, a livello culturale, a livello ricreativo. Anche rispetto a problemi di lotta alla criminalità e di servizio alla legalità. Quello che in qualche modo l’associazione Libera di don Ciotti fa a livello nazionale, in piccolo, in microcosmo, potrebbe anche essere il ruolo di ogni parroco, o meglio della comunità parrocchiale in quanto tale. Non perché dobbiamo assumere un ruolo che non ci compete: noi non facciamo sindacalismo, non siamo una associazione culturale, non siamo volontariato sociale. La nostra caratteristica è altro. Ma se non facciamo anche questo rischiamo di cantare nel deserto, di non avere gli interlocutori.

E invece?
Si continua a lavorare ad intra, nelle chiese, e quello che succede sul sagrato, nella piazza, non ci richiama, non ci interessa, non ci interpella. Eppure la presenza del parroco è gradita. Vedo che quando le varie associazioni sportive o di volontariato sociale organizzano le loro manifestazioni, il fatto che il parroco sia presente in mezzo a loro è visto con gratitudine. È importante perché dice l’interesse della Chiesa per le cose “normali”, quotidiane, che la nostra gente vive. Esserci vuol dire puntare sulla condivisione, sulla capacità di entrare in empatia, di dire siamo solidali, siamo compagni, condividiamo anche i problemi. Poi magari non abbiamo soluzioni, ma diamo la testimonianza che il mondo ci interessa. Don Bosco ai suoi primi collaboratori diceva: «se volete che i ragazzi si interessino a ciò che interessa voi, cominciate voi ad interessarvi a ciò che interessa loro».

Colpisce anche che neppure sulle cose di Chiesa i sacerdoti siano interventisti. Ad esempio il Papa offre continuamente spunti di dibattito pubblico. Ma questi stimoli non sembrano troppo raccolti, rilanciati, discussi se non, forse, durante l’omelia della Messa…
E il guaio è che spesso chi interviene, non vuole approfondire, ma solo contraddire. Ad esempio dopo la battuta del Papa sui cristiani che non debbono fare i figli come conigli, qualcuno ha voluto far sapere con ostentazione di essere dalla parte dei conigli, non cogliendo il senso di ciò che il Papa voleva dire e arroccandosi su posizioni oltranziste, magari con l’intenzione di far sentire in colpa chi non ha la possibilità, l’opportunità o il desiderio di essere come la famiglia presentata la prima sera del festival di San Remo. Chi ha detto che quello è l’ideale? Ma quanti credono che questo sia l’ideale hanno la forza di intervenire, interagire, interloquire. Gli altri, invece, sembra che non possano avere voce in capitolo. Alla fine penso che forse noi sacerdoti non vogliamo avere problemi. È come se dicessimo: «ma chi me lo fa fare?». Entrare nel dibattito vuol dire che poi qualcuno ti interpella, qualcuno ti critica, qualcuno ti mette in questione, a qualcuno non stai bene; che puoi fare una figuraccia, che ci devi mettere la faccia. Ed oggi probabilmente sono pochi quelli che vogliono metterci la faccia.