Ridere di tutto è l’inizio di un’aberrazione dell’umano

La vignetta di «Charlie Hebdo» che raffigura il futuro del piccolo Aylan (il bimbo trovato morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia il 3 settembre scorso) immaginandolo da adulto come un molestatore di giovani tedesche, fa ridere amaro e ci si ritrae inorriditi. Esattamente come faceva ridere amaro la vignetta di qualche settimana fa che, nel ricordare la strage di novembre, raffigurava uno spettatore del Bataclan intento a tracannare champagne mentre lo spumante gli fuoriesce dai buchi del torace colpito dalle pallottole. Le immagini sono radicalmente differenti. Mentre l’avventore del Bataclan con lo champagne in mano rappresenta un diritto di replica alla morte che aveva subìto: «vadano a quel paese, abbiamo lo champagne», il piccolo Aylan invece non ha diritto allo stesso status, lo si accusa di un delitto che avrebbe fatto qualora sarebbe diventato più grande: sarebbe stato un molestatore di donne. Se per qualcuno ciò può far riflettere o avere comunque un suo senso, il prezzo che si paga è troppo alto. Il dolore di chi Aylan lo ha conosciuto e lo ha amato non ha prezzo e non c’è intenzione comunicativa che possa permettersi il diritto di violare la memoria di un bambino. E non si tratta solo del padre di Aylan, bensì di tutti noi perché tutti siamo in relazione, in qualche modo, con quel bambino.

Vale la pena di andare tuttavia a fondo della questione, perché dietro la deriva di «Charlie Hebdo» c’è quella di un’intera temperie culturale, quella di un’intera società post-moderna che è entrata nel suo viale del tramonto. C’è un punto a partire dal quale si capisce perfettamente come la parabola di un tale scenario culturale si sia concluso e questo punto è dato proprio dal mancato rispetto dei defunti. La festa infinita, l’euforia perpetua dei figli del benessere gira a vuoto dinanzi a quest’evidenza dell’esistenza, dinanzi al dolore infinito di un lutto che non può tollerare sarcasmi.

Così si realizza per «Charlie Hebdo» lo stesso percorso di profanazione che aveva già caratterizzato i no global, un po’ di tempo fa, quando si è assistito ad una mobilitazione spontanea per rimettere in ordine l’altare laico di Place de la République, profanato dai contestatori della conferenza sul clima che, sovrascrivendovi la scadenza della rivolta in programmazione, avevano devastato e buttato all’aria lumi e ricordi.
 «Charlie Hebdo», esattamente come i manifestanti del 15 novembre, non riesce a riconoscere la sacralità della morte, il rispetto per chi ci è stato tolto. Questa eredità della nostra civilizzazione gli è ignota, non la riconosce e pensa di poter fare sarcasmo su di un bambino di tre anni, morto in mare mentre assieme ai genitori tentava la fuga da una zona di guerra.
Chi muore non scompare nel nulla. Anche per un non credente, anche per l’ateo più perso e disperso del mondo, è chiaro che chi muore resta nella coscienza di chi lo ha conosciuto e lo ha amato. «Le Monde», rappresentante qualificato ed autorevole della Francia laica e repubblicana, ha compiuto infatti esattamente l’operazione opposta a quella di «Charlie Hebdo»: ha elencato i volti e le storie di quanti erano rimasti uccisi al Bataclan, anziché irridere ha rispettato ed ha riconosciuto la statura di vite umane degne di essere raccontate.

«Charlie Hebdo», ultimo mesto rappresentante di un’euforia avventata di ben altra epoca, non ha invece resistito alla tentazione di fare sarcasmo, mettendo i piedi anche là dove ci sono le cose più care.
«Charlie Hebdo» è figlio di un’epoca irriverente e goliardica, dove lo sberleffo e la satira celebravano i funerali di una Francia del dovere e dell’impegno in nome di una espressività riconquistata, in un paese che macinava ritmi di crescita dei quali oggi non abbiamo più memoria. Era un mondo ricco e irriverente, dinanzi al quale sembrava profilarsi un futuro ancora più florido e liberatorio. Di quel mondo si sono perse le tracce.
Una cultura viene meno quando non sa più interpretare il presente, quando scopre di non sapere più cogliere il senso della tragedia. Ed è proprio questo il limite della modernità di «Charlie Hebdo»: il non sapere comprendere quanto accade. Tra i disegnatori di «Charlie Hebdo» e gli abitanti di Parigi che vanno alla statua di Place de la République a ricomporre i lumi per i defunti calpestati da un’altra iper-minoranza in via di smobilitazione (quella dei no global) c’è ormai un vuoto incolmabile.
Resta allora l’affermazione del fumettista francese Joann Sfar per il quale la vita è questione di fede e senza principi primi non si va da nessuna parte.

Il non credere, l’irridere di tutto, anche di ciò che più andrebbe difeso — come la morte di un innocente — è l’inizio di un’aberrazione dell’umano, la prova di una deriva nel porto delle nebbie, dove il non senso divora chi lo guarda e chi lo legge. È la fine di un mondo che non ha più nulla da dire se non il proprio sarcasmo; è la manifestazione di un’ironia oramai lugubre, da quando risuona in un cortile in cui non c’è più nessuno. Ma il cortile va ripopolato. A dispetto della paura della realtà e della povertà dell’umano.