Ricostruzione, il vescovo: «le istituzioni facciano un passo avanti e la politica un passo indietro»

(da «Avvenire») Attorno al tema «Parola& parole» si è consumata la serata di mercoledì scorso a Bibione, culmine della Festa di Avvenire: ospite il vescovo di Rieti, Domenico Pompili. E sono state parole dedicate alla situazione dei territori del Centro Italia colpiti, 11 mesi fa, dal terremoto.

Per cominciare il dolore: «Il dolore che prima si chiede perché – ha raccontato il vescovo – ma col passare del tempo comincia a chiedersi: “fino a quando”», mettendo così il dito nella piaga della situazione. Con un doveroso distinguo. Un primo momento in cui «il sentimento del Paese si è dimostrato in un soccorso immediato, generoso, gratuito». Innumerevoli e abbondanti gli aiuti che per mesi si sono riversati sulle popolazioni. Ma poi i mesi si sono sommati ai mesi e altri terremoti sono sopraggiunti.

Seconda parola: ricostruzione. «Sono consapevole che ricostruire come prima – ha spiegato – non è possibile, anche non sensato. Amatrice come Aleppo, tutta una maceria, dopo essere stata ricostruita più volte sui detriti dei terremoti precedenti. Arquata si è slabbrata: ha senso ricostruire lì». Ricostruzione è una parola che si declina con un occhio ai tempi lunghi e a una burocrazia che frena. Pompili è stato schietto: «La burocrazia è un problema italiano che nelle crisi emergenziali si segnala per l’inconcludenza. Mettere una firma a qualcosa si fa difficile: si teme che, prima o poi, arrivi qualcuno a presentare il conto, ovvero l’avviso di garanzia. Questa paura blocca le cose».

La terza parola: responsabilità. Di questi giorni è la notizia dei primi cinque indagati per il crollo delle case Ater di Amatrice: «Non voglio fare il giustizialista» ha rimarcato. «Ho detto che non è il terremoto a uccidere, perché l’ambiente naturale non ci è nemico. Noi dobbiamo stare attenti a cosa facciamo, a non tagliare il ramo dell’albero su cui siamo appollaiati. Siamo corresponsabili. Non andiamo solo alla ricerca del capro espiatorio».

La quarta un binomio: istituzioni e politica. «Il difetto italiano che anche il terremoto diventa una querelle politica, per cui non si sta sui problemi, ma se ne fa una bandiera. Per dirla tutta: in questi casi le istituzioni facciano un passo avanti e la politica un passo indietro. Per istituzioni intendo il governo e l’esercito, che è stato straordinario, ha lavorato sodo, spostato montagne di macerie».

La quinta non può essere che la gente: «Ho ascoltato il loro dolore, le loro storie. Quella di un padre inconsolabile per non essere riuscito a salvare il suo bambino. Quella di un sepolto sotto le macerie che voleva urlare per farsi sentire, ma se apriva bocca si mangiava pietre e sassi. Quella di una donna, che lavora fuori, e in un momento ha perso mamma, papà, marito, figlio e figlia. E gli anziani, gente di montagna, che hanno passato quest’anno al mare, lontano da tutto quello che conoscono. Ho raccolto la loro dignitò silenziosa, la consapevolezza che non torneranno più, ma anche lo straniamento, lo smarrimento».