Un ricordo di don Vincenzo Santori

Mi è abbastanza facile scrivere “qualcosa” su don Vincenzo (il titolo di Monsignore veniva usato da pochi e personalmente lo chiamavo sempre con il “don”): sono stato con lui, a Regina Pacis, per 21 anni, dal 1972 al 1993. Nello stesso tempo mi è difficile scrivere per l’impossibilità di cogliere la sua vita con le parole: o si dice poco o si dice troppo. E poi le parole, anche scritte, hanno spesso diverse interpretazioni. Ma l’affetto, la stima e la riconoscenza mi spingono a scrivere.

Chi è stato per don Vincenzo per me

Sono venuto a Rieti nell’ottobre del 1971, accolto dal nuovo Vescovo S. E. Mons. Dino Trabalzini per finire l’ultimo anno alla Università Gregoriana con la Licenza in Teologia Dogmatica. Terminata la Licenza avrei dovuto tornare a Vercelli, ma il Vescovo Trabalzini mi disse: «Io ho fatto un piacere a te e tu fanne uno a me: andresti volentieri per un po’ di tempo a Regina Pacis con don Vincenzo e la Sig. Angela Pasqualoni?»

Accettai subito.

Entrai quindi in quella piccola comunità familiare e parrocchiale accolto come un figlio. Sembrava una scelta “passeggera”, ma diventerà per me come persona e come sacerdote di fondamentale importanza. Subito, nell’estate del 1972, con i ragazzi della Parrocchia avviai i Campi Scuola di Villa S.Anatolia: don Vincenzo, Angela, espertissimi di Azione Cattolica, con Rosanna Chiuppi, hanno fortemente appoggiato il mio sforzo di giovane prete (avevo 32 anni) e abbastanza inesperto: quanta povertà, fede, entusiasmo e dedizione.

Molti altri e molte altre mi hanno aiutato, ma se non avevo accanto a me, sempre silenzioso, ma presente con parole essenziali, la figura di D.Vincenzo… tutto sarebbe stato certamente diverso, perché le “trappole” lungo il cammino sono state tante.

La casa parrocchiale di Regina Pacis era quel nucleo familiare essenziale e necessario per un Sacerdote: non si trattava (e non si tratta ancora oggi) di avere un piatto, un letto ordinato, la biancheria pulita e stirata, ma si trattava di avere trovato affetti, sentimenti, amicizia, stima di cristallina sincerità e una purezza-pulizia di rapporti di cui la mia vita sacerdotale si è nutrita.

Ogni mattina alle 7,30 si era in chiesa: don Vincenzo all’inginocchiatoio di destra e io a sinistra, disponibili dal primo mattino sempre e in preghiera; quasi ogni sera, attorno al tavolo dove avevamo cenato si pregava con la “Compieta” parlando magari della giornata.

Nell’anno 1974 mio papà e mia mamma, comprendendo che rimandavo sempre il mio ritorno a Vercelli, vollero venire a Rieti. Sono rimasti in Parrocchia una settimana e poi mi dissero: «Vediamo che ti vogliono proprio bene. Sei fortunato: hai trovato una famiglia che veramente ti ama. Ora siamo molto più tranquilli, ma… vedi di tornare». Ma Rieti diventerà per me la mia terra perché da me scelta, anche per il fascino che la Valle Santa di Francesco ha esercitato.

Allora, chi è stato per me don Vincenzo?

Il sacerdote che mi ha accolto, amato, consigliato, richiamato facendomi sperimentare la dolce attrattiva dell’Amore di Dio Padre, molto più dei libri della Università Gregoriana: è stato il Sacerdote davanti al quale ho pianto mentre moriva, al quale ho detto «la Madonna ti aspetta» e la macchina che registrava la pulsazioni ebbe un balzo per diverso tempo da 40 a 70; davanti al quale, vedendolo nella bara con gli abiti liturgici della Celebrazione Eucaristica non ho potuto trattenere il pianto: era magari “vecchio” ma era pur sempre sia morendo che nella bara: «il vivente»
come Cristo Signore.

Come era don Vincenzo

Come uomo

Aveva don Vincenzo una carattere molto forte, esigente, energico, deciso. Ma questo carattere era come in un contenitore: era sempre sotto controllo.

Personalmente credo di averlo anche fatto soffrire, ma mai mi ha fatto capire la sua sofferenza. Le cose, lui, non le diceva, ma eri tu che dovevi capire affinché non sembrasse costrizione.

La vita della Parrocchia di Regina Pacis era complessa: eravamo nel fervore del primo post Concilio ed eravamo piombati in una crisi di identità cristiana che ha fatto saltare gli schemi della vita pastorale precedente.

Del Concilio tutti capirono una cosa “Bisogna Cambiare”, ma senza sapere come e cosa cambiare. Sacerdoti e Laici, ognuno si inventava in un certo senso la così detta “Chiesa del Concilio” ma senza conoscerne i documenti.

Anche noi quindi avevamo una comunità Parrocchiale vivacissima, ma da coltivare con coraggio, prudenza, profezia, equilibrio evitando rotture di rapporti umani e rotture ecclesiali.

Don Vincenzo capiva, pregava, rifletteva ma appariva sempre sereno, sempre paziente, sempre di umore uguale anche quando vedeva o sentiva colossali stupidaggini. Qualche volta mi disse: «A quella riunione vacci tu, per favore e sii calmo: tutto col tempo si appianerà».

Certo, come uomo, ci sarebbero altre cose da dire, ma per ora mi fermo.

Come Sacerdote

Ho sempre pensato che don Vincenzo, nella sua vita terrena, non potesse essere altro che Sacerdote. Era una Sacerdote che in tempi di persecuzione si sarebbe fatto uccidere, ma non avrebbe mai tradito la sua missione.
La forza del suo carattere era contenuta, controllata dalla sua identità con Cristo; il suo autocontrollo non era un prodotto della psicologia, ma il prodotto della sua identificazione con Cristo, prima come cristiano e poi in forza della consacrazione Sacerdotale che lo rendeva “alter Christus” ossia un Cristo vivente.

E io, che gli stavo accanto, cercavo di capire, imparare, imitare: preti si diventa, ma non con la bacchetta magica dell’Ordinazione o delle laureee in Teologia.

Forse i nostri giovani Sacerdoti dovrebbero essere così aiutati prima di essere gettati nella mischia di una evangelizzazione che è come una fisarmonica: un po’ si allarga e un po’ di restringe.

Con se stesso era esigentissimo; parlava con la sua vita e quando io lo osservavo non avevo bisogno di parole della bocca, perché capivo tutto, al volo. Con gli altri però era sempre di una indicibile comprensione, misericordia.

Credo di non aver mai sentito dalla sua bocca un pettegolezzo; se commentava, cercava di cogliere delle persone o degli avvenimenti il lato positivo. Anche dopo alcune riunioni tra noi Sacerdoti – riunioni un po’ burrascose – riusciva con un mezzo sorriso a sdrammatizzare tutto e troncare.

Don Vincenzo era molto, molto povero. La gente diceva che a Regina Pacis, i parrocchiani erano benestanti, sarà stato anche vero, ma in Parrocchia si viveva in vera povertà: nulla mancava ma vedevo la difficoltà a volte di trovare i soldi per il pane e la spesa.

Quando però si trattava della Chiesa, della Liturgia, allora cercava di dare a Dio il meglio. Era un ottimo liturgista; si snobbava, ma conosceva benissimo la esigenze liturgiche. Io ero un po’ più trasandato, ma lui mai è sceso in sciatterie e trasandatezze: avevo sempre da imparare e quando celebravo davanti a lui ero sempre molto attento a far bene ogni cosa.

Don Vincenzo era un formatore di anime e dedicava molto tempo alla direzione Spirituale. Io stesso chiedevo a lui consiglio. Ricordo che quando venne eletto Arcivescovo di Vercelli Sua Eccellenza Mons. Tarcisio Bertone, oggi Cardinale, mi inviò un telegramma affinché mi presentassi a Vercelli perché voleva conoscere bene la mia attività a Rieti. Ne parlai con D.Vincenzo e lui così mi imposto l’incontro: «riferisci quanto fai a S.Anatolia e in Parrocchia, ma con semplicità senza ingrandire i successi e descrivendo le difficoltà; riferisci della nostra Parrocchia e quanto cerchiamo di fare; prega e anch’io pregherò».

Così feci. Alcuni anni dopo trovai nel Card. Tarcisio Bertone – che nel frattempo venne chiamato a Roma – un sostegno, un amico, un fratello anche con la sua frequentazione sia ai campi scuola di Villa S.Anatolia sia nella mia modesta casa parrocchiale di S.Lucia.

Il Sacerdote don Vincenzo era un vero maestro di Spirito: certamente con questa morte la Chiesa va avanti ugualmente, ma una cosa mi sembra certa: il Signore ci aveva donato una vera luce e ora, nella sua saggezza, questa luce non ci sarà più. Ne verranno altre certamente, ma intanto lui non ci sarà.

Molti giudicavano don Vincenzo come un prete… all’antica. In realtà ha tentato di impostare una vita parrocchiale con una “modernità” unica e forse non capita.

Appena accettai di andare a Regina Pacis don Vincenzo mi prese in disparte e mi spiegò la presenza di Angela Pasqualoni in Parrocchia: avrebbe fatto vita comune con noi Sacerdoti. Più o meno mi parlò così: «Angela è con noi non come donna di servizio e per i lavori di casa, ma come presenza di laica consacrata totalmente a Cristo – senza i voti – nella Chiesa e, in particolare in questa Parrocchia, accanto a noi Sacerdoti e a servizio pieno e totale delle anime, come noi Sacerdoti». Voleva farmi capire che la nostra vita di Sacerdoti era condivisa in tutto e per tutto da questa giovane ragazza.

Personalmente non ho fatto fatica ad inserirmi in una comunità sacerdotale con la presenza di Angela; anzi ne ho tratto tanto giovamento e una certa maturazione affettiva interiore che né il Seminario, né gli studi mi avevano dato.

Nello stesso tempo ho colto quanto questo sacerdote – don Vincenzo – fosse avanti, molto avanti, coraggiosamente e profeticamente avanti nel concepire la vita sacerdotale: il sacerdote è soltanto di Cristo, ma non è un solitario personaggio con una fredda e quasi superiore presenza fondamentalmente lontana dalla vita normale.

A volta si parlava dell’Ordo Virginum: donne che nei primi secoli della Chiesa (prima che nascessero le Congregazioni Religiose) consacravano la loro vita a Cristo – senza fare i voti – e queste donne venivano “riconosciute” dal Vescovo come presenze preziose e ufficiali nei servizi ecclesiali liturgici, nella accoglienza degli Apostoli essendo itineranti.

Don Vincenzo pensava che con il Concilio, tentare una esperienza di vita comunitaria con il modello dell’Ordo Virginum antico, sarebbe stato forse una segno di grande rinnovamento nella vita della Parrocchia, nella vita della Chiesa e nella vita dei Sacerdoti stessi.

Forse questo aspetto della vita di don Vincenzo non è stato colto, capito: avviò l’esperienza a Regina Pacis con l’autorizzazione del Vescovo, ma non destò attenzione né tra i Sacerdoti né tra la gente.

Quando don Vincenzo maturò la decisione di lasciare la Parrocchia perché non si sentiva più in forze (1992) essendo io con l’incarico di coparroco e quindi avrei dovuto succedergli mi parlò più o meno in questi termini: «Vorrei chiedere di essere esonerato perché non ne ho più le forze. Ritengo però che tutti e tre (ossia d. Vincenzo, il sottoscritto e Angela) dobbiamo lasciare per chiudere così questa esperienza». E così fu fatto. Don Vincenzo prestò servizio in Cattedrale, Angela tornò al suo paese di Antrodoco, il sottoscritto venne nominato Parroco a S.Lucia.

La vita Sacerdotale di don Vincenzo non è stata solo quanto ho scritto: è stata molto più ricca e diversificata con interessi notevoli.

Posso elencare la grande passione per il giornale diocesano «Frontiera» che avrebbe voluto vivo; l’impegno per l’Azione Cattolica; l’impegno per i Corsi di Cristianità detti “Corsillos”; la sua grande devozione alla Madonna…

Se dovesse servire a qualcuno, potrò scrivere ancora su don Vincenzo.

***

Personalmente sono anch’io avanti nel cammino della mia vita terrena e il tempo mi si è fatto breve. Mi sono confessato da don Vincenzo – l’ultima volta – nel mese di maggio. Nel salutarmi faticosamente si portò alla finestra e mi disse: ti vedo sempre. E poi mi abbracciò dicendo: «Quanto mi piacerebbe risentire l’Organo nel Bel S.Domenico».

Lo rividi in ospedale in una situazione di grande debolezza.

Tornando da Lourdes andai da lui all’una di notte, molto stanco per il viaggio; mi riconobbe, tentò un sorriso e quando gli dissi: «La Madonna l’aspetta» gli bagnai la fronte con un po’ d’acqua di Lourdes: in quel momento la macchina che indicava la pulsazioni dei suo cuore ebbe una balzo e da 38-40 pulsazioni salì a 70 pulsazioni.
Capii che … aveva capito tutto.