Un rapporto malato

È come se tra il mondo della politica, della giustizia e dell’informazione fosse sistematicamente in agguato la tentazione di strumentalizzarsi l’un l’altro, talvolta con inquietanti forme di complicità

Come se non bastasse la gravità dei problemi che il Paese deve affrontare – la mancanza di lavoro e la crescente povertà, solo per fare due esempi non casuali – la vita pubblica continua a essere avvelenata da fatti e situazioni che alimentano (e sono alimentati da) un rapporto malato tra politica, giustizia e informazione. Una patologia che non riguarda solo l’Italia, ovviamente, ma che da noi ha assunto caratteristiche così strutturali da diventare una costante. Proprio per questo è necessario non rassegnarsi e continuare invece a parlarne a costo di apparire noiosi e ripetitivi.
Se nella maggior parte dei casi sono i politici nell’occhio del ciclone, di recente la questione ha investito in modo più vistoso di altre volte il versante dei magistrati. Si va dal tema assai controverso del loro impegno diretto e indiretto in politica ai comportamenti contrastanti delle procure finiti anche sotto i riflettori del Consiglio superiore della magistratura. Con l’aggravante, agli occhi di un’opinione pubblica divisa tra rabbia e assuefazione e comunque sconcertata, di uomini delle forze dell’ordine, in funzione di polizia giudiziaria, accusati di aver commesso quantomeno “errori” decisivi ai fini di indagini di enorme impatto sulla politica nazionale.

Non è corretto e non è utile costruire un’analisi generale partendo dalle pecore nere, né si possono affrontare in modo sommario casi giudiziari di grande complessità, gettando discredito anche su coloro, e sono la gran parte, che continuano con tutti gli umani limiti a compiere il loro dovere. Senza con ciò nascondersi che poi sono proprio le pecore nere e i casi concreti a suscitare allarme sociale. Quel che emerge dalle cronache giudiziarie rimanda però a un problema più radicale. È come se tra il mondo della politica, della giustizia e dell’informazione fosse sistematicamente in agguato la tentazione di strumentalizzarsi l’un l’altro, talvolta con inquietanti forme di complicità. La fisiologia di uno Stato democratico vorrebbe invece che gli operatori agissero con rigore ciascuno nel loro ambito, connessi tra loro da rapporti di leale collaborazione, questo sì, ma anche di reciproco controllo nell’interesse dei cittadini.

In questa prospettiva assume un rilievo tutto speciale il ruolo degli operatori dei media, tanto più in un’era in cui velocità e quantità delle notizie rappresentano una sfida inedita per la qualità dell’informazione. Una democrazia sana ha bisogno di giornalisti autonomi e responsabili, che lavorino con accuratezza e, perché no, anche con passione. Non si può chiedere ai giornalisti di non fare il loro mestiere, che è quello di raccontare e interpretare la realtà. Si può, anzi, si deve chiedere loro di farlo fino in fondo. Evitando per esempio di emettere sentenze: questo, in una democrazia, è il compito dei giudici.