Rai: il caso Perego e la riforma del servizio pubblico. Bernardini (Tv Talk): «La linea editoriale sia recepita da tutta l’azienda»

Massimo Bernardini, autore televisivo e conduttore di Tv Talk, avverte: “La Rai è il maggior produttore di ore televisive d’Italia. È una struttura che deve continuamente produrre. Non è mica semplice che si fermi a riflettere”. La necessità di cambiare direzione: “Veniamo da decenni in cui la Rai è stata spinta, poco alla volta, ad avere un solo obiettivo: massimizzare gli ascolti per battere la concorrenza di Mediaset. Se per anni formi quadri dirigenziali con questa mission, poi è difficile cambiare e attuare una linea editoriale che punti su altro”

“La politica deve dare le linee editoriali e garantire il pluralismo, ma non può decidere se Paola Perego debba lavorare o meno”. Massimo Bernardini, autore televisivo e conduttore di Tv Talk su Rai 3, ha le idee chiare sul cambio di passo a cui è chiamata la Rai per rispondere alla vocazione di servizio pubblico: “La nuova dirigenza ha impresso una sterzata oggettiva alle scelte dell’azienda. Ma il problema di fondo resta: è fondamentale, infatti, che le decisioni prese dai vertici siano recepite dall’intera struttura e arrivino fino alla messa in onda. Chiudere un programma è legittimo, ma anche fin troppo facile. E indica che qualcosa non funziona”.

Dunque, è stato un errore interrompere “Parliamone sabato” dopo le polemiche per la lista sulle donne dell’Est?
Il problema non è la Perego, ma il funzionamento della linea editoriale in Rai. Se non si lavora in un certo modo, allora può accadere che si arrivi a un punto in cui ciascuno può dire quel che vuole. Era normale che sarebbe finito in un mare di stupidaggini, alcune anche offensive. È necessario un lavoro attento e continuo di confronto, di freni e contro freni, di qualcuno che dica di andare in una direzione e qualcun altro che dica il contrario. Quando si scivola nell’imbuto del trash, significa che qualche passaggio è saltato.

Sospendere i programmi non è sufficiente?
Le scelte editoriali devono essere condivise e accettate da tutti con competenza e maturità. In televisione non funziona il controllo poliziesco. Sarebbe utile che ci fossero, ad esempio, gruppi di lavoro ben bilanciati anche in base all’età. Aiuta avere persone più anziane, che hanno visto tante cose, insieme ai giovani, che esprimono un desiderio di trasgressione.

C’è ancora in Rai l’ambizione di contribuire alla cultura del Paese, o le ragioni di mercato dominano?
Non dobbiamo essere ingenui. Anche Tv Talk deve raggiungere certi risultati di pubblico. Il mezzo di comunicazione di massa prevede proprio questo, altrimenti non lo si utilizzerebbe. Ma la Rai non insegue soltanto gli ascolti. È parte del mestiere televisivo, certo, ma non bisogna esserne ricattati.

Nessuno in Rai chiede di fare a tutti i costi ascolti, questa è una balla che si racconta.

La Rai di oggi ci invita a farlo rispettando una linea editoriale, che mette al primo posto la funzione di servizio pubblico. Ma tutti i quadri dell’azienda ne hanno consapevolezza?

In che senso?
Veniamo da decenni in cui la Rai è stata spinta, poco alla volta, ad avere un solo obiettivo: massimizzare gli ascolti per battere la concorrenza di Mediaset. Se per anni formi quadri dirigenziali con questa mission, poi è difficile cambiare e attuare una linea editoriale che punti su altro. È indispensabile coinvolgere gli operatori, a tutti i livelli. Ma come si fa a cambiare se i gruppi dirigenziali durano al massimo tre anni? Il rischio è che domini una consuetudine che manda avanti la macchina televisiva, che non si pone più domande sui contenuti ma viva di abitudine.

La politica ha una responsabilità?
La politica non aiuta. Questo continuo entrare a gamba tesa nei contenuti dei programmi è indebito.

Va bene che Boldrini indichi le linee editoriali su come il problema della donna debba essere trattato dalla Rai, ma più che dirlo alle agenzie dovrebbe operare una intelligente moral suasion interna all’azienda.

Quello che è sussurrato in politica, infatti, diventa una tempesta in Rai. Metà del personale è stato portato dalla politica. Mi ha lasciato di stucco, ad esempio, il comportamento dell’Usigrai che in molti casi ha scelto di ricorrere alla Commissione di vigilanza. Bisognerebbe essere gelosi della propria autonomia editoriale.

È il momento di ripensare la sensibilità e lo stile del servizio pubblico?
La Rai è il maggior produttore di ore televisive d’Italia. È una struttura che deve continuamente produrre. Non è mica semplice che si fermi a riflettere. Ma è una questione seria quella di trovare modi e tempi per coinvolgere tutti gli attori in un processo di aggiornamento, senza fermarsi a un generico richiamo alla deontologia. La prima cosa che ti dice un televisivo Rai è che questo cambiamento non si può fare. Eppure in giro per il mondo ci sono altri modi di fare servizio pubblico. È come se la Rai non avesse il tempo di pensare. Tutti noi, non soltanto la dirigenza. È urgente rivedere lo stile, ma se sei travolto dal produrre diventa quasi superfluo. I cambiamenti ci sono se si ha tempo di riflettere, non se arriva qualcuno che chiede di chiudere i programmi.

Nell’occhio del ciclone è anche l’obbligatorietà del canone Rai…
Il canone è tra i più bassi in Europa. E non è sufficiente, tanto che la Rai sta tagliando programmi perché non è sicura delle entrate. Però è diventato indispensabile ricostruire la credibilità del servizio pubblico, per cui non sembri una rapina chiedere il canone in bolletta.

A furia di avere avuto per lustri come ideale la massimizzazione degli ascolti, si è rotto il patto con il cittadino.

Ma per fare buona televisione, ci vogliono risorse economiche adeguate. Altrimenti non ci si può lamentare del fatto che la Rai faccia una televisione conformista. È faticoso riconquistare la fiducia dell’opinione pubblica, e le ingerenze della politica peggiorano la situazione.