Radio di città

Uno sguardo alla città e al modo in cui si forma la sua cultura non può evitare di soffermarsi sul ruolo dei media. Un capitolo che iniziamo ad affrontare insieme al disc jokey Antonio Sacco, che da qualche tempo è tornato ai microfoni di RadioMondo.

Antonio, secondo te qual è il rapporto tra la città e la radio?
Credo che la radio influisca tantissimo: per chi la usa, per chi la ascolta, per chi la conduce, per chi la vive, credo che la radio sia fondamentale. Anche oggi qui a Rieti credo sia ancora un mezzo utile per tanti. Per questo va sostenuta, va difesa: è un patrimonio culturale, rientra nell’aspetto territoriale. È il territorio che fa nascere la radio. L’ascesa delle radio locali è avvenuta quando si è fatta più diffusa la percezione del benessere. Tutti volevano fare radio: c’era anche la radio del condominio, dell’amico di fronte. Oggi invece, l’importanza di questo strumento è forse sottostimata.

Cosa manca?
Manca la consapevolezza della dimensione locale. Forse siamo stati abituati troppo a quello che è il network. I grandi network hanno un po’ annientato la localizzazione dell’informazione. Il limite dei network è quello di massificare la notizia e di conseguenza l’ascolto. Le fasce orarie sono uguali per tutti: i programmi si somigliano tutti, la notizia viene ripetuta allo stesso modo da tutti e girano sempre le stesse dieci canzoni. Manca una connotazione locale del linguaggio. Secondo me è un aspetto di cui riappropriarsi, perché ogni voce si dovrebbe caratterizzare sulle proprie sensibilità e conoscenze.

Si può fare lo stesso discorso per la televisione locale?
In parte, ma la televisione porta con se ulteriori difficoltà. La televisione è limitante: è vero che si sta cercando renderla più interattiva e dinamica grazie ad internet e alle applicazioni per smartphone e tablet, ma ciò che davvero è in movimento è la radio. Ciò che ascolti sempre è la radio. È difficile camminare, correre o guidare guardando la tv, è naturale farlo ascoltando la radio.

Fino a pochi anni fa Rieti aveva tante radio, commerciali e anche politiche. Oggi il panorama è molto più ristretto. Che è successo nel frattempo? Il pubblico si è appiattito tutto sulle grandi radio nazionali?
Mah, forse anche il pubblico è cambiato. Oggi è molto più distratto, ascolta relativamente. Anche con la musica il pubblico che si sofferma su quello che si sta dicendo attraverso la musica è poco. Il resto non vuole neppure pensare che tu stai mandando un messaggio, vuole solamente farsi intrattenere dalla canzone che rientra nella tendenza del momento. Prima era consueto vedere gruppi di persone identificarsi in alcune proposte musicali. C’era il gusto dell’ascolto, la curiosità di sapere chi era l’artista, chi era il cantante, chi aveva composto. Di conoscere il titolo e i testi. E il piacere di condividere queste cose. Oggi secondo me ci si limita ad un consumo veloce della radio: «questa canzone mi piace» e punto, il tema finisce lì.

Sembrano i tratti di una comunità sempre meno coesa, quasi assente…
Oggi sembra che nulla caratterizzi, incida, faccia la storia. Non è che la comunità è assente, ma che è presente solo in quanto consuma.

Dico comunità assente perché il consumatore mi pare “uomo solo” per definizione…
È vero, oggi resistono ancora alcune “comunità” di radioascoltatori, che magari hanno tutti la radio perennemente sintonizzata sullo stesso canale per un proprio gusto. Una caratteristica dello strumento radiofonico è proprio quella di poter creare comunità d’ascolto diffuse, di unire persone anche molto lontane tra loro. Ma nella maggior parte dei casi l’ascolto si è fatto fugace, frettoloso, casuale. E spesso non si vede l’ora che finisca la canzone per vedere cosa succede dopo. Anche se quello che arriva è del tutto prevedibile.

Ma anche ridotta a rumore di fondo la radio sembra in grado di riempire l’immaginario.
Certo, ma è sempre meno quello delle culture locali. Sembra quasi che dietro alle grandi radio ci sia un unico editore. Mi pare una impostazione da rifiutare. Ogni piccola realtà ha la sua identità, senza la quale non sarebbe nulla. Non si può pensare che siamo tutti di Milano, o di Roma, o di Napoli, o di Torino, o di Firenze. Sono città belle e importanti, ma non siamo noi. Ognuno ha una sua idea, una sua conoscenza, una sua cultura. Sono competenze da coltivare pensando il territorio su queste basi. Quello che viene da fuori può essere bello, interessante, condivisibile, ma rimangono luoghi lontani, in cui si vive diversamente e nei quali nessuno si interessa di noi. La radio locale, diciamo pure provinciale, di periferia, può invece aiutare a vivere e a sentirsi vicini, può essere un collante sociale.

La situazione di oggi sembra l’opposto di quando c’erano anche vere e proprie radio politiche, o anche confessionali. Magari occupavano delle nicchie, ma erano veicolo di messaggi anche forti. Erano strumenti che provavano ad incidere nel tessuto sociale. Oggi la radio non è più così.
Sì, ma non è più così neppure la politica. Non c’è una politica di contraddizione. Non c’è quasi più nulla. Oggi in gran parte delle radio gli argomenti principali sono centrati sullo sport e sul gossip, in qualche caso c’è qualche sketch comico. Il resto lo fanno le flash news, il meteo e la viabilità. Cose povere nei contenuti e che non impegnano più di tanto l’ascoltatore. Quando si avevano radio di destra, di sinistra, o anche con una identità moderata, invece, si percepiva la forza delle persone e delle idee. La contraddizione aiutava anche la crescita e la costruzione delle identità. Non c’è da fare un mito del passato: non è che si volasse sempre alto. Ma il pluralismo delle voci era la premessa del confronto. Con il venir meno di questi aspetti è anche diminuita la capacità di sviluppo della città.

È possibile che questo svuotamento abbia a che fare con un cambiamento tecnologico. Magari siamo solo passati dalla “comunità” radiofonica alla “community” virtuale. Quello che per tanto tempo ha fatto la radio, oggi lo fanno i social network?
No, non c’è proprio più quella voglia di mettersi in condizione di approfondire. Sembra ci sia molta meno voglia di ragionare sulle cose. Le attuali generazioni non si direbbero destinate a lasciare alcun segno, paiono quasi preda del vaniloquio. È venuta meno l’idea di essere costruttori di futuro. Un orizzonte nel quale una certa radio sarebbe un ottimo strumento. Aiuta a costruire mentalmente ogni giorno qualcosa. Obbliga a comunicare, a tenere acceso il cervello. Ti mette in obbligo chi sta dietro il microfono verso chi ti ascolta.

Un compito per la radio locale oggi?
Tornare ad includere le tante voci della città. Qualcosa del genere si fa, ma ci vorrebbe più convinzione. Le voci della città aiutano a fare la città stessa. Quando si parla ogni giorno per due ore nella fascia pomeridiana è inevitabile che qualcuno ascolti. Moltiplicare questo sforzo potrebbe dare risultati inaspettati.