Jaya Chaliha ed Edward Le Joly, “Madre Teresa, la gioia di amare”

Il senso del messaggio di Madre Teresa di Calcutta. “I poveri sono persone grandi. Possono insegnarci molte belle cose”

La “matita di Dio” scriveva delle cose che non possono essere analizzate, razionalizzate, destrutturate come un testo letterario. La loro bellezza non sta nella rispondenza a canoni estetici. Al contrario, ne rifuggivano, e per questo alcuni non l’hanno capita fino in fondo. Qui la bellezza delle sue parole, che può essere assaporata in una raccolta curata da Jaya Chaliha ed Edward Le Joly dal titolo “Madre Teresa, la gioia di amare” (Oscar Mondadori, 397 pagine), è fatta di altre cose, soprattutto dal fatto che le parole vengono dopo l’azione, diventano un tutt’uno con essa. La distanza della letteratura dalla vita, le penombre e le ombre che provengono dal fascino inquieto della separazione tra realtà di tutti i giorni e lato oscuro, in questo libro, (la cui prima edizione fu scritta quando la nuova santa era ancora in vita), non ci sono. Il messaggio di Teresa di Calcutta è agli antipodi delle belle forme e della ricerca di uno stile. Eppure lo stile c’è, proprio perché paradossalmente esso non è né cercato né desiderato. È la realtà concreta che parla qui, anche se essa da sola non basterebbe a giustificare il fascino di quelle parole.
La realtà qui si è incontrata con l’Altro, senza fronzoli, senza tanti discorsi. Dio voleva da Teresa-Agnes Bojaxhiu i fatti, non separati dal pensiero, ma parte integrante del messaggio divino. Fatti che non potevano prescindere dall’amore di Dio e dall’amore verso Dio. Per questo le parole di Teresa colpiscono più di altre poesie molto più elaborate, costruite e colte: rappresentano il dicibile di un contatto assoluto, ubbidiente, immediato con la volontà divina, che in generale non può essere detto con umane parole, Dante e Juan de la Cruz ne sapevano qualcosa.
Le sue parole insegnano ciò che abbiamo dimenticato nella nostra ansia di essere sempre all’altezza dei tempi e disinvolti: la verità può essere scontata, per gli intellettuali e i colti, ma la verità è per esempio che una ragazza caduta in povertà non può frequentare la scuola perché non ha di che lavarsi. Una ragazza il cui fratello deve andare a mendicare da Teresa un pezzo di sapone, dicendo “Per favorire, dammi del sapone in modo che lei possa lavarsi il sari, ritornare a scuola e finire i suoi studi”. Eccola la scontatezza del reale, dell’apparir del vero, direbbe Leopardi, uno che di sofferenza se ne intendeva, pur essendo colto e nobile, al di là di tante chiacchiere vane, seppure d’avanguardia: da qualche parte del mondo c’è chi non possiede neanche il sapone per lavarsi, come, e Teresa ce lo ricorda qui, da qualche parte del mondo c’è chi non ha da mangiare, o da bere, e muore per questo. Ed è per questo che lei confessa di arrabbiarsi, “quando vedo degli sprechi, quando le cose che sprechiamo sono quelle di cui la gente ha bisogno, cose che la salverebbero dalla morte”.
Ma anche quando non parla di fame e volontariato, Teresa non ha timore di andare controcorrente. Invece di invitare a lasciar perdere tutto e darsi al volontariato, invita a stare a casa se c’è qualcuno solo, se ci si accorge di non dare tempo a sufficienza ai figli o amore al coniuge. “Se qualcuno vuole aiutarmi, cominci a farlo a casa”.
E quando la attaccavano con la solita obiezione che si dovrebbero mettere i poveri in grado di non essere più poveri, invece che limitarsi a sfamarli, lei accettava il discorso, basato sull’esempio del dare la canna da pesca invece del pesce alla gente affamata, ma concludendo che “le persone che raccogliamo non sono in grado di reggersi in piedi con una canna da pesca”.
E da qui si vede che erano i fatti a parlare, non le politiche e le ideologie.