Quella volta che don Mazzolari scrisse la Lettera ai vescovi della Val Padana

Oltre 300 lettere – molte delle quali pubblicate per la prima volta nel volume Un’“obbedienza in piedi”. L’epistolario tra don Primo Mazzolari e i vescovi di Cremona, a cura di Bruno Bignami e Diletta Pasetti – compongono il copioso epistolario tra don Mazzolari e i vescovi della sua diocesi di Cremona: Geremia Bonomelli, Giovanni Cazzani e Danio Bolognini. “L’epistolario – spiegano i curatori – è un utile tassello per approfondire la figura del parroco, ma anche per sondare la spiritualità cristiana come luogo di incarnazione e di decisioni, soprattutto in merito al tema tanto discusso dell’obbedienza. Le lettere mostrano la fatica della fedeltà al Vangelo e rivelano schiettezza, apertura di cuore, fiducia, sostegno, dubbi, incoraggiamenti, condivisione, ragionevolezza. Un quadro di fede e di amore alla Chiesa tutt’altro che scontato”

Il 1° marzo 1958 il quindicinale Adesso, ispirato da don Primo Mazzolari pubblica una lettera indirizzata ai vescovi della Val Padana. Il documento porta la firma di una decina di preti cremonesi e bresciani, ma l’autore è chiaramente il parroco di Bozzolo.
L’intento della lettera è quello di risvegliare le coscienze dei vescovi sulla triste situazione dei lavoratori agricoli nella pianura lombarda. Si denuncia l’esodo del mondo rurale che diserta le chiese perché non sente la vicinanza della Chiesa. Sono soprattutto le condizioni di lavoro a destare preoccupazione: “Il salario di un contadino, casa compresa e le altre aggiunte, è inferiore alla paga dell’ultimo manovale dell’industria” – denuncia la Lettera. La paga dei braccianti è da fame, le loro famiglie vivono spesso in stalle o catapecchie, le paghe non corrispondono alle ore effettive di lavoro svolto, mancano tutele in caso di malattia… e la Chiesa può starsene a guardare?
I vescovi interpreteranno l’iniziativa di Mazzolari come mancanza di fiducia nel loro ruolo di guide. E interverranno duramente nei confronti di don Primo, facendo pressioni su mons. Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, perché intervenisse a richiamare il prete cremonese (gennaio 1959).
La presente lettera, inviata al vescovo di Cremona mons. Danio Bolognini, rappresenta una difesa da parte di don Mazzolari di fronte alle incomprensioni suscitate all’interno del mondo cattolico.

Eccellenza,
tra i sacerdoti della nostra diocesi circolano dei pesanti giudizi a voi attribuiti sulla Lettera ai Vescovi della Val Padana, di cui non mi vergogno di dichiararmi l’estensore.
Premetto che molti parroci di diverse diocesi, i quali hanno potuto leggere La lettera, domandano l’onore di sottoscrivere un documento, “tanto parco nella sua equità quanto fiducioso e devoto nella sua urgenza”. Anche in campo sindacale incontrò larghi consensi, provocando, più presto del previsto, alcune migliorie previdenziali a favore dei salariati e dei braccianti.
Parecchi settimanali diocesani l’hanno riprodotta, e la Voce Cattolica di Brescia si è persino rallegrata che tra i firmatari figurassero alquanti sacerdoti bresciani.
L’on. Giulio Pastore, segretario nazionale dei Liberi Sindacati ed oggi Ministro delle Zone Depresse, l’ha citata in parecchi suoi discorsi e in un recente scritto, riassunto dall’ANSA: “Questo è un problema”.
Gli stessi avversari ne parlarono rispettosamente, anche se da certi silenzi e da certi malumori di casa nostra non ben contenuti e poco opportuni, cercarono di cavarne, senza riuscirci, un tornaconto elettorale.
Ognuno è libero di pensare ciò che vuole di quel pubblico appello ai Vescovi, specialmente un Vescovo, il quale può avere motivi personalissimi e, dentro certi limiti, tutti ragionevoli e più che rispettabili.
Quello che soprattutto mi sorprende e mi fa pena nelle espressioni che vi vengono attribuite, è l’affermazione che il problema non riguardi i Vescovi e che quindi la “lettera” porti un indirizzo sbagliato: secondariamente, che don Mazzolari con tale iniziativa abbia disonorato la diocesi.
Eccellenza, i salariati e i braccianti fanno metà della nostra diocesi, e voi che siete uomo di cuore e venite da quella parte, non potete essere certamente soddisfatto di Visite pastorali che si limitano a controllare dei numeri, a interrogare dei fanciulli, a benedire esigue schiere di Azione Cattolica, a raccomandare la pazienza a della povera gente, che sta perdendo, se pur non l’ha perduta, la fiducia nella religione e nei sacerdoti, pur conservando alcune abitudini rituali.
“Questo problema” che la “lettera” non ha fabbricato né scoperto, questa grande pena del mondo contadino è più vostra che mia, poiché, per mandato divino voi siete più padre e pastore del parroco. A voi essa appartiene in modo eminente per quella sublime investitura di carità, di cui lo Spirito Santo vi ha fatta “insegna” e che dà significato a tutte le altre piccole insegne: la croce pettorale, la mitria, l’anello, il pastorale… Queste decorano il prelato, l’altra fa il vescovo, colui che è chiamato a reggere la Chiesa del Dio Vivente.
Per quello che mi riguarda personalmente, non riesco a credere che il mio Vescovo abbia pensato e detto che quella “lettera” scritta da un suo vecchio parroco e controfirmata da tre altri suoi sacerdoti, suoni disdoro per la diocesi, per il Vescovo e per il clero cremonese. “In hoc enim laboramus ed maledicimur…”. (“Per questo infatti noi ci affatichiamo e combattiamo”: è citazione paolina di 1Tm 4,10, ndr).
Sono un povero prete, è vero, ed il mio Vescovo ha molte ragioni di non stimarmi e di non volermi bene, non foss’altro per i crucci e le apprensioni che abbondantemente gli procuro. Non penso però d’aver toccato tal punto di incosciente aberrazione da umiliare e disonorare con i miei scritti la Chiesa cremonese. Non lo pensa neppure il Sant’Ufficio, né i Vescovi della Val Padana, benché non si siano degnati di ricevere la nostra povera confidente voce.
Eccellenza, non mi vedete spesso in Vescovado né alle cerimonie, ma quando c’è da tirare e da perdere salute e reputazione sono presente: come sono pronto, passata la prova, a rientrare nel silenzio del mio presbiterio senza nulla chiedere. Né ho l’abitudine di far coro quando si discorre leggermente dei superiori e dei confratelli. Se qualche cosa ho da dire, lo dico a voce alta o lo scrivo con franchezza e sincerità, come voi ben sapete e come ne trovate conferma nella mia voluminosa “cartella personale” presso il vostro archivio.
Ho sessantotto anni: si tratta quindi di una breve sopportazione, che come estrema carità domando al mio Vescovo e ai miei confratelli.
Sono “malfatto”, lo so: e in questi giorni di solitudine e di preghiera presso un figlio spirituale di don Calabria, ne provo confusione e pentimento maggiore del solito. Lasciatemi però dire, che nonostante la grama struttura, la quale non sa piegarsi né ai tempi né agli uomini, alla mia Chiesa ho sempre voluto bene, come ho voluto bene alla mia diocesi e ai miei Vescovi, che ho sempre cercato di servire in piedi con filiale e libera devozione, senza mendicare scuse per i miei torti, senza chiedere stima o favori per il poco che Iddio mi aiuta a fare.
Colui che mi deve giudicare è sull’“altra riva”, dove sono già col cuore, e spero che Egli nel perdonarmi non sia parco al pari degli uomini, per questa sola ragione che non mi sono mai vergognato di lui anche se non ho saputo veramente amarlo e degnamente rappresentarlo.
Vi bacio la mano con venerazione e rispetto.

Primo Mazzolari