Quando i giochi si fanno pericolosi

Anche i giochi più innocui hanno un qualcosa di ambiguo: la volontà di vincere, di prevalere, di soverchiare, di umiliare.

La vita è già di per sé un gioco, e molto pericoloso. Su più fronti. Si gioca con tutto e non sempre per propria scelta. Si gioca con il lavoro, con l’amore e gli affetti in generale, si gioca con i figli, nel senso che si gioca con i loro sentimenti, con le loro attese. Si gioca con tutto, anche nella Chiesa. Si gioca con la gente, con la fede, con gli scandali.

Lo Stato gioca con la salute dei cittadini, con tutto. Con il lavoro, con le pensioni, con gli stipendi. Se ci si fa caso il comune denominatore di tutti questi giochi è l’attesa. Anzi il gioco è attesa. Attesa che l’altro, quando c’è, faccia la sua mossa, attesa di una vincita che ci possa cambiare la vita; attesa che il tempo stesso faccia accadere qualcosa di sorprendente e di nuovo.

L’attesa che snerva, che rode, carica lo spazio e il tempo di lunghe parentesi, ciò che ci attendiamo dagli altri, dalla comunità, dal popolo, dal capo, da chi ci deve dare qualcosa, a volte anche giustamente meritato.

Per questo ci troviamo a camminare su una fune tesa, a fare gli equilibristi della vita, a sfidare il pericolo e a crearlo quando non c’è.

Verrebbe quasi da mettere sullo stesso piano tutti i tipi di gioco: da quello d’azzardo ai giochi di società fatti con ostinazione, dal giocare coi colleghi di lavoro al massacro per vedere chi resiste e chi molla, alle moine al capoufficio che ci può promuovere ad alti incarichi, e ancora ai ricatti al coniuge per ottenere l’affidamento dei figli o più soldi per il mantenimento.

E lì ad attendere che accada qualcosa, che tutta quella adrenalina scatenata ci dia energia e una ragione in più di vita.

In realtà anche i giochi più innocui hanno un qualcosa di ambiguo: la volontà di vincere, di prevalere, di soverchiare, di umiliare, anche senza un guadagno economico è già di per sé negativa, poiché fa vedere l’altro come qualcuno da sconfiggere. Fino all’evidenza secondo cui l’altro è da combattere, mai da accogliere e da accettare così come è. Questa appare come una sorta di “perversione” religiosa. Il gioco è buono solo quando è fatto “per gioco”, ma se è troppo serio, anche se non c’è un azzardo economico è sempre male, perché umilia l’altro. Paradossalmente è meno malvagio il gioco d’azzardo con la slot-machine, che un gioco non d’azzardo con un “nemico” da combattere e da annientare, dopo averlo odiato o deriso.

Ma nel gioco d’azzardo con la slot, quell’attesa di guadagnare diventa ossessiva fino alla dipendenza, cioè fino a non poterne fare a meno, fino a sentire il terreno mancare sotto i piedi o fino a sentire che ci manca l’ossigeno, quando non possiamo assecondare il desiderio irrefrenabile di giocare.

Se il gioco si fa troppo duro diventa troppo pericoloso, troppo esigente, ma non siamo disposti a riconoscerlo, anzi cerchiamo di sminuirne la vis attractiva, il precipizio vorticoso, l’abisso senza fondo e senza uscita.

Lo diciamo di tutte le dipendenze: dell’alcol, del fumo, delle canne, dei giochi apparentemente innocui, delle slot.

Diciamo: “tanto posso smettere in qualunque momento” ma in realtà non smettiamo mai.

Quando il gioco si fa duro perdiamo l’equilibrio, smarriamo l’orientamento, spesso rischiamo di far cadere chi ci segue e chi ci precede, non importa quale abito indossi.

Forse si deve passare per il vizio del gioco, come per qualsiasi altro vizio e dipendenza, per capirne la forza distruttiva, ma sarebbe meglio tenersene lontani per non esserne travolti.