«Perché sono catechista?»: l’interessante percorso della vicaria Cittaducale-Antrodoco-Leonessa-Amatrice

«Dobbiamo prestare orecchio ai battiti di questo tempo e percepire l’odore degli uomini d’oggi, fino a restare impregnati dello loro gioie e speranze, delle loro tristezze e angosce». Sono state queste parole di Papa Francesco il filo conduttore del corso di formazione che ha visto riuniti per cinque domeniche consecutive – dal 26 febbraio al 26 marzo, più una giornata di ritiro a Greccio lo scorso 20 maggio – i catechisti della Vicaria Cittaducale-Antrodoco-Leonessa-Amatrice.

Impostato per “progredire insieme nella fede”, fortemente voluto dal vicario di zona, don Ferruccio Bellegante in accordo con i diversi parroci, e altrettanto fortemente incoraggiato dal vescovo Domenico, il percorso è stato un momento in cui gli operatori delle parrocchie hanno avuto modo di conoscersi e scambiare esperienze e proposte. Non solo: sotto la guida di suor Paola Rado, superiora dell’Istituto delle Suore di Maria Bambina nella parrocchia di Castel Sant’Angelo, si è cercato di rispondere alla fatidica domanda: «Cosa significa per me essere catechista?».

Questo, infatti, è il cuore della questione: spesso i catechisti si sentono scoraggiati, delusi. Uomini e donne di frontiera che, oggi più che mai, toccano con mano le difficoltà di una testimonianza tanto necessaria quanto precaria. Sembrano quasi dei don Chisciotte che combattono contro i mulini a vento, inseguendo obiettivi che spesso non hanno solide radici. Un continuo affannarsi a inseguire i ragazzi, i loro genitori, i parroci, tra nuovi metodi e programmi, che non lascia mai il tempo per fermarsi e riflettere su cosa si sta facendo e sul perché va fatto.

Proprio qui, invece, si è inserito il percorso della vicaria: invece di consigliare nuove strategie per rendere attraente quello che dovrebbe essere un laboratorio di fede viva (ma che di fatto è sentito come la sesta ora di scuola del sabato), ha costretto a spostare l’attenzione dai ragazzi ai catechisti. Perché quando una situazione sembra senza via di uscita, basta cambiare punto di vista per cercare di risolverla. Così, riflettendo sulla scelta di essere catechisti, quello che prima era scoraggiamento può diventare speranza. Troppo stanchi, alle prese con i ragazzi, troppo preoccupati di evitare la grande fuga dopo la Cresima, i catechisti rischiamo di perdere di vista l’essenziale. Troppo impegnati a domandarsi «perché i ragazzi vivono così male il catechismo?», hanno troppo poco tempo per domandarsi «perché io sono catechista?».

Tutto sta nella risposta: se i catechesi vogliono veramente portare frutto debbono fare come i salici, che si innalzano maestosi e rassicuranti perché capaci di piegare i propri rami e abbeverarsi alla Sorgente che mai si esaurisce.

Questa è una tappa del viaggio, non la prima e nemmeno l’ultima, ma sicuramente importante perché sintomatica di una Chiesa capace di guardare oltre l’orizzonte, quello della piccola comunità con i suoi pregi e i suoi difetti, ma soprattutto quello delle sue paure e dei suoi dubbi, ricordando e cercando di mettere in pratica quello che diceva Papa Paolo VI: «La Chiesa può essere autentica nella sua missione solo sulle orme di Cristo», senza che questo significhi però rimanere sordi e ciechi di fronte alle esigenze di questa era.