La pensione è un miraggio per i giovani? Urgono visione progettuale e capacità di lavorare sul lungo periodo

Per comprendere la dimensione del problema bisogna partire da un anno di svolta per il sistema previdenziale: il 1996. Da quell’anno, infatti, le pensioni vengono calcolate con il metodo contributivo, sono cioè rapportate ai contributi effettivamente versati e non alle ultime retribuzioni. Quindi, quando si parla di giovani, si parla di persone le cui pensioni ricadranno completamente in questo tipo di regime, che in sé ha una sua ragionevolezza e che è stato introdotto perché in tempi di vacche grasse si era costruito un sistema finanziariamente non più sostenibile, per non parlare di privilegi e sperequazioni di vario tipo

Con un tasso di disoccupazione giovanile del 35,5% – ultimo dato fornito dall’Istat – che oggi la preoccupazione principale dei giovani sia quella di trovare un lavoro è del tutto evidente. Ma se è drammatica la situazione in atto, il pensiero di come un presente senza lavoro si ripercuoterà sul futuro toglie il fiato: che ne sarà dei giovani quando essi non saranno più tali? Riusciranno ad avere una pensione? Quando? E quale pensione avranno? Il tema, finalmente, comincia ad affacciarsi nel dibattito pubblico. Ha trovato timidamente posto anche nel confronto avviato tra governo e sindacati in vista della legge di bilancio.

Per comprendere la dimensione del problema bisogna partire da un anno di svolta per il sistema previdenziale: il 1996.

Da quell’anno, infatti, le pensioni vengono calcolate con il metodo contributivo, sono cioè rapportate ai contributi effettivamente versati e non alle ultime retribuzioni. Quindi, quando si parla di giovani, si parla di persone le cui pensioni ricadranno completamente in questo tipo di regime, che in sé ha una sua ragionevolezza e che è stato introdotto perché in tempi di vacche grasse si era costruito un sistema finanziariamente non più sostenibile, per non parlare di privilegi e sperequazioni di vario tipo. Il punto, però, è che

oggi i giovani, soprattutto dopo la grande crisi, subiscono almeno tre fattori micidiali anche sul piano previdenziale: ingresso ritardato nel mondo del lavoro, salari estremamente bassi e discontinuità della contribuzione, a causa della precarietà dell’occupazione.

Finora le pensioni – con mille distinguo: chiedere a chi vive con una pensione al minimo – hanno rappresentato in termini collettivi una formidabile rete di protezione sociale. Non è un caso che gli indici di povertà abbiano un andamento inversamente proporzionale all’età: più questa cresce, più il rischio di povertà diminuisce. E anche l’esperienza concreta – senza bisogno di statistiche – racconta di come le pensioni di genitori e nonni abbiano aiutato a tirare avanti tante famiglie falcidiate dalla perdita dei posti di lavoro.

Ma per i giovani – che cominciano a versare tardi, che versano poco e a singhiozzo – la pensione rischia di essere un miraggio. Con conseguenze sociali devastanti. La questione richiederebbe una visione progettuale e una capacità di lavorare sul lungo periodo che la politica purtroppo sembra aver perso, schiacciata com’è dal continuo ricambio dei governi, dal bisogno di raccogliere consensi in tempo reale e di conquistare voti in una delle mille elezioni che incontra sul cammino (e il tema delle pensioni dei giovani, purtroppo, non ha certamente un grande appeal elettorale).

Va dato quindi atto al governo di aver fatto una prima mossa, presentando ai sindacati una proposta sia pure molto limitata e che allo stato non è stata neanche formalizzata, in quanto il dialogo con i sindacati è soltanto agli inizi e nei prossimi incontri terranno banco soprattutto le pensioni di oggi. Proviamo a vedere comunque di che si tratta. Nella situazione normativa attuale, chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996 può accedere alla pensione “normale” (a 66 anni e 7 mesi, che saliranno in base all’aspettativa di vita) se ha 20 anni di contributi e in base ad essi ha maturato una pensione di importo pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale (quella che un tempo si chiamava pensione sociale). Fatti i conti si tratta di circa 672 euro: questo limite è stato fissato dalla legge Fornero per evitare pensioni ancora più esigue. In caso contrario deve continuare a lavorare fino a 70 anni e 7 mesi (anch’essi da adeguare all’aspettativa di vita) e prendere un minimo di pensione purché abbia almeno 5 anni di contributi. La proposta del governo riduce l’importo richiesto a 1,2 volte l’assegno sociale (si arriva a circa 537 euro) e ciò dovrebbe consentire a un maggior numero di persone di andare in pensione all’età “normale”. Allo stesso tempo, per ovviare almeno in parte all’esiguità del trattamento, il governo ipotizza di rendere possibile un cumulo più alto con l’assegno sociale (che è di circa 448 euro e spetta a chi è in condizioni disagiate in quanto percettore di un reddito inferiore alla soglia stabilita dalla legge per questa misura), portandolo dall’attuale 30% al 50%. In questo modo, sommando assegno sociale e pensione, si arriverebbe intorno ai 650-680 euro mensili.

Verrebbe da definire questa proposta un “pannicello caldo”. Eppure anche per essa sembra esserci un problema di risorse e di compatibilità con i vincoli della Ue in materia previdenziale. Quindi è tutto da vedere se troverà spazio nella prossima legge di bilancio. Sarebbe comunque un segnale importante.