Pensieri per Luca

Con diciassette dei suoi colleghi aveva ricevuto la lettera di licenziamento dal supermercato di Rieti nel quale lavorava. Pochi giorni dopo si è tolto la vita

C’è il suicidio di un giovane reatino nelle cronache di questi giorni. Si è gettato dal ponte delle torri di Spoleto. Viveva a Terni, dove lascia la moglie e la figlia piccola. Lavorava in un supermercato di Rieti. Chi lo ha conosciuto lo ricorda come una persona solare e gentile. Di lui non aggiungeremo altro. La storia personale merita rispetto. Le sue ragioni rimarranno inconoscibili.

Ma a leggere quanto è scritto sulla rete e sui giornali, all’origine della tragedia potrebbe esserci una condizione di lavoro non facile, qualcuno dice opprimente e in qualche modo squalificata, e di sicuro in vista di un ulteriore peggioramento.

Difficile dire se queste cose corrispondono al vero, ma non si fa troppa fatica a pensarle verosimili. La situazione sarebbe pienamente inserita nel panorama attuale. Parlare del caso singolo quasi non serve quando la tirannia del mercato sull’uomo è la regola. Quante aziende forzano i lavoratori a dimettersi per riassumerli a minor prezzo? Quante, incontrando troppa resistenza in questa prova di forza, preferiscono semplicemente licenziare? A molti pare quasi normale. Magari non giusto, ma almeno giustificabile. Da tempo non si parla neppure di donne e uomini, ma di forza lavoro. E cosa sono le “risorse umane” se non una merce tra le altre, da acquistare al prezzo più basso?

Si dirà che questa situazione la consente la legge. E anche quando non la consente, di fatto pare quasi auspicarla. La spinta al precariato è evidente in ogni settore. Consegue all’applicazione sistematica della logica del mercato, deriva dalla «dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano». E più si diviene precari, più è facile cadere.

Certo, non si può generalizzare. È sbagliato stabilire un semplice rapporto di causa ed effetto fra le tragedie stampate sui quotidiani e un panorama del lavoro infelice. Ma occorre pure riconoscere che in tanti vivono una reale condizione di patimento. E prima che dalla crisi, il dolore arriva da una società individualistica, all’interno della quale la sconfitta economica sembra irrisolvibile. Insieme all’economia stanno venendo meno i sistemi di previdenza e prossimità. Tanta sofferenza rimane del tutto privata, mai raggiunta da solidarietà, comprensione, ascolto. Costretti al «si salvi chi può», sembriamo esserci scordati che nessuno può salvarsi da solo.

Vanno bene i tavoli al ministero e l’impegno dei parlamentari. Anche l’indignazione sembra necessaria, ma il mondo è cambiato. C’è l’urgenza di elaborare risposte nuove. Di fronte ai licenziamenti (o, come si dice più elegantemente oggi, alla “flessibilità in uscita”), ci sarebbe da ragionare sul serio se il lavoratore è persona o merce. Ma non basta: solo rimediando al declino del senso di comunità e di solidarietà riusciremo a essere costruttori e artefici di un nuovo umanesimo del lavoro.

Ma ovviamente ci vorrà del tempo, e forse non sappiamo neppure bene da che parte cominciare.