Paura di invecchiare? Un unico meccanismo cellulare sembra essere coinvolto in tutti i processi d’invecchiamento

Un unico meccanismo cellulare sembra essere coinvolto in tutti i processi d’invecchiamento.

Invecchiare, una prospettiva ineluttabile che spesso – se vissuta male – diviene fonte di paura ed angoscia per tante persone. Una sorta di tabù da esorcizzare e sconfiggere, con ogni rimedio possibile. Tanto che – nella nostra epoca più che in passato – anche la ricerca scientifica ha moltiplicato gli sforzi per meglio comprendere i meccanismi dei vari processi d’invecchiamento che interessano il nostro organismo.

Un importante risultato in questo ambito è stata la recente scoperta – illustrata da un articolo pubblicato su Nature – di un unico meccanismo cellulare fondamentale che sembra essere coinvolto in tutti i processi d’invecchiamento, tanto di quelli che portano alla formazione delle rughe, come alle patologie cardiovascolari legate all’età o all’insorgenza del morbo di Alzheimer, e così via. Tutti processi che, ovviamente, influiscono anche sulla durata della vita.

Un gruppo di ricercatori della Harvard University e dell’Università della Danimarca meridionale, a Odense, è riuscito infatti a mettere in evidenza un meccanismo che – grazie al “taglia e cuci” (noto come “splicing”) dei filamenti di RNA – permette ad un gene di produrre più proteine che possono esercitare un’azione differente nelle diverse parti del corpo.
Sono molte le conoscenze acquisite negli ultimi anni dalla scienza sul ruolo che la disfunzione di geni e proteine riveste nei processi dell’invecchiamento. Questa ricerca però è la prima a mettere in luce anche il ruolo biologico giocato dai processi che portano dai geni alla formazione di proteine, tra i quali lo “splicing” dell’RNA riveste senza dubbio un’importanza primaria.
In sintesi, i risultati dello studio evidenziano come la manipolazione dei fattori di “splicing” possa contribuire a promuovere un invecchiamento sano.

La ricerca, coordinata da Caroline Heintz, è consistita in una serie di esperimenti su un particolare tipo di vermi (Caenorhabditis elegans), che rappresenta un ottimo modello per lo studio dell’invecchiamento. Essi, infatti, vivono in media solo tre settimane, rendendo così agevole – dato il breve lasso di tempo – cogliere via via i segni del loro invecchiamento (come la perdita di massa muscolare, il declino della fertilità, la riduzione delle difese immunitarie e perfino la formazione di rughe). Per di più, questa specie di vermi un numero di geni quasi uguale a quello degli esseri umani. Molti di questi geni, poi, sono evolutivamente ben conservati, cioè sono presenti in entrambe le specie, in toto o con omologhi con varianti minori.

In pratica, Heintz e i suoi colleghi hanno modificato il genoma dei vermi C. elegans in modo che l’attivazione di uno specifico gene fosse accompagnata dalla produzione di una proteina fluorescente, visibile dall’esterno perché le cellule dei C. elegans sono quasi trasparenti. Grazie a questo espediente, i ricercatori hanno così potuto seguire, passo dopo passo, l’attività di “splicing” di singoli geni durante tutto il processo di invecchiamento. In questo modo sono state rilevate due differenti modalità di “splicing” dell’RNA: una in atto nei vermi giovani; l’altra, leggermente diversa, che si manifesta progressivamente con il passare del tempo, fino a diventare la prevalente nei ceppi di C. elegans caratterizzati da un invecchiamento precoce.

Gli studiosi hanno anche potuto verificare che, negli esemplari sottoposti a una forte restrizione dietetica – procedura che in questi animali provoca un significativo allungamento della vita -, lo “splicing giovanile” permaneva per quasi tutta la durata della vita. In particolare, è risultato che il mal funzionamento del processo di “splicing” dell’RNA è da ascrivere soprattutto ad un suo componente, chiamato fattore di “splicing 1” (SFA-1), presente anche negli esseri umani. La presenza di livelli notevolmente elevati di SFA-1 è sufficiente per estendere la durata di vita dei C. elegans.

Certo l’applicazione di queste nuove conoscenze sull’uomo è ancora lontana, ma di sicuro questa ricerca rappresenta un importante passo avanti nella comprensione dei meccanismi dell’invecchiamento.