Ospedale di Rieti: si può affidare la salute al precariato?

Si può affidare la salute delle persone alla precarietà, all’incertezza, ad un sistema che ha tutta l’aria di una moderna schiavitù? Sono le domande che vengono in mente affrontato la vicenda degli interinali nell’ospedale di Rieti. Non ci si occupa troppo di loro, nonostante rappresentino all’incirca la metà della forza lavoro del nosocomio. In questi giorni però, sono finiti sulle cronache locali per un problema nell’erogazione dello stipendio.
Sull’onda di questa faccenda ne abbiamo incontrati diversi e di vari reparti. E lo scenario che emerge è francamente preoccupante.

«Facciamo funzionare ogni aspetto dell’ospedale – ci spiegano – probabilmente quella di Rieti è la struttura con il più alto precariato tra le regionali». Conoscendoli si capisce subito di trovarsi davanti a persone preparate e appassionate. Sono sicuramente professionali, ma senza la certezza della propria posizione. La domanda è se sia opportuno affidare la salute di una città a chi si trova a sua volta in una situazione di debolezza, di subalternità, di soggezione.

«La certezza della nostra professione non l’abbiamo mai avuta» ci racconta un’infermiera. «Solo contratti a un mese, a tre mesi, anche dieci giorni». «A me una volta hanno fatto un contratto per tre giorni» spiega un’ausiliaria. La prossima scadenza collettiva è programmata per il 30 giugno. Quale destino attenda questi lavoratori e di conseguenza l’intero ospedale da quel punto in poi, nessuno lo sa.

E le chiacchiere sull’importanza della prevenzione in Sanità qui lasciano il campo ad una prospettiva tutta schiacciata sul presente. Il problema attuale è lo stipendio mancato. «All’inizio era solo qualche giorno di ritardo – ci dicono – poi ha cominciato a spargersi una voce: ci hanno fatto un contratto da apprendisti. Abbiamo fatto dei controlli all’Inps è la voce si è dimostrata fondata. Qualcuno addirittura dal 2010».

Chissà se l’agenzia interinale è nel giusto. Nel nostro Paese, ormai, non ci si stupisce più di nulla. Magari c’è pure una legge che permette ai somministratori di lavoro di pagare meno contributi ricorrendo a questi sistemi.
Di cose discutibili, del resto, in questo settore sembrano essercene diverse: «La Asl – spiegano i lavoratori – paga per noi lo stipendio pieno più il 15% come diritti di agenzia. Non sarebbe più semplice ed economico assumerci? Alcuni di noi vanno avanti con questo sistema da sette anni. Evidentemente del personale c’è bisogno. Ma quanto avrebbe risparmiato la Sanità nel frattempo?»

Che la risposta sia da cercare nel blocco del “turn-over” e delle assunzioni, o nel “patto di stabilità”, o in chissà in quale altra diavoleria amministrativa non cambia l’irrazionalità della situazione. Che poi si somma alla follia quotidiana di turni svolti fuori da ogni regola.

«Nel nostro reparto siamo otto interinali e due persone di ruolo rimaste in servizio. Ci sono stati tre pensionamenti che nessuno ha sostituito. Lavoriamo in una realtà di estremo disagio: non c’è abbastanza personale per organizzare i turni. È una vita impossibile. Oltre al dovuto facciamo tantissime ore in più» ci spiega una lavoratrice. Una situazione che paradossalmente va a incidere sulla salute di chi le persone le dovrebbe curare.

«Obiettivamente è impossibile fornire ai pazienti l’assistenza cui avrebbero diritto. Noi facciamo ogni sforzo, ma il rapporto tra pazienti e operatori è completamente sballato. In alcuni casi arriva al doppio di quello previsto dalle normative» aggiunge una infermiera.

«Per non parlare di come siamo costretti a fare cose che non rientrano nel nostro profilo» sottolinea una ausiliaria: «È una situazione creata dalla necessità. E in ospedale tutti vedono, ma nessuno dice niente e seppure qualcuno protesta non cambia nulla».

«Tutto questo – spiega un infermiere – a fronte di una totale assenza di diritti. In sostanza noi dobbiamo solo lavorare, a testa bassa. Come delle macchine. E fianco a fianco con chi ha le nostre stesse mansioni, ma è sostenuto dall’intero ventaglio di tutele del lavoratore regolarmente assunto. È giusto tutto questo?»

«Tante di noi hanno famiglia. Molte vorrebbero un figlio» spiega una lavoratrice. «Ma il pancione equivarrebbe a trovarsi quasi certamente senza lavoro. E la maternità nessuno te la paga».

Sono 230 le storie come queste. Storie che emergono in conseguenza a quella che ha tutta l’aria di essere una sorta di privatizzazione impropria. Infatti è un’azienda privata che decide chi e a quali condizioni può lavorare nell’ospedale pubblico. Una distorsione che traduce in termini di profitto ciò che lo Stato dovrebbe erogare come servizio pubblico.

Ma per capire da che parte tira il vento basta consultare il sito dell’agenzia interinale, la cui “mission fondamentale” è di «perseguire traguardi ambiziosi di fatturato, redditività e sviluppo aziendale».

Sarà arrivato il tempo di fare una bella manovra correttiva, tornare ad assumere per garantire il benessere di chi sta male anche attraverso la sicurezza di chi lavora per loro? In fondo un buon lavoro fa bene alla salute. Anche a quella sociale.