Novità al Bambino Gesù per chi ha bisogno di un trapianto

Messa a punto una tecnica che riduce la mortalità

Buone nuove dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Là i medici hanno messo a punto una nuova tecnica per consentire ai bambini immunodepressi (con difetti congeniti del sistema immunitario) di sottoporsi al trapianto di midollo donato da uno dei genitori, senza incorrere nell’alto rischio di mortalità legato al particolare tipo d’intervento.
Si tratta senza dubbio di un risultato eccezionale (è la prima sperimentazione di questo genere nel mondo), ottenuto grazie all’utilizzo di un gene “suicida”, capace di tenere sotto controllo eventuali infezioni dovute al trapianto.

È una novità scientifica di tale interesse che i dati finora ottenuti sono stati presentati a San Diego in California, il 3 dicembre, al 58° meeting annuale della American Society of Hematology. Questi dimostrano la piena guarigione di tutti i 20 pazienti (100% dei bambini trattati), affetti da immunodeficienze primitive, cui è stato infuso il gene “suicida”.
Attualmente, inoltre, questi risultati sono sottoposti a validazione anche per i pazienti affetti da leucemia. È convincimento degli studiosi, infatti, che le cellule del donatore modificate con il gene suicida, oltre ad abbattere la probabilità di infezione, siano in grado di ridurre il rischio che la malattia si ripresenti nei pazienti leucemici.

Ma come funziona questa nuova tecnica? Essa rappresenta un’evoluzione della procedura di trapianto da genitore (aploidentico), già adottata in questi anni dall’équipe del professor Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Oncoematologia dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù.

Normalmente, le cellule linfocitarie del genitore vengono prelevate e, mediante manipolazione genetica, aiutate a recuperare la cosiddetta “immunità adattiva”, che protegge il paziente dalle infezioni virali o fungine. Quindi, una volta reinfuse, queste cellule si espandono e contribuiscono alla protezione immunitaria del paziente.

A volte però accade che esse aggrediscano l’organismo del ricevente (“graft versus host disease”), causandone la morte. In verità, si tratta di una delle maggiori cause di morte in caso di trapianto ed è uno dei motivi per cui, spesso, i medici preferiscono evitare questa procedura, almeno quando si tratta di malattie che non mettono a rischio immediato la sopravvivenza del paziente (ad esempio, malattie del sangue non neoplastiche). La nuova tecnica messa a punto all’Ospedale Bambino Gesù, al contrario, permette di combattere e sconfiggere l’aggressione da parte delle cellule del donatore. Prima di iniziare il percorso trapiantologico, infatti, dal genitore vengono prelevate le cellule linfocitarie del sangue nelle quali viene inserito il gene “suicida” (inducibilecaspase-9 o iC9). Il tutto viene poi congelato. Due settimane circa dopo il trapianto, le cellule modificate geneticamente vengono scongelate e infuse nel bambino. A questo punto, se tutto procede senza complicazioni, il gene “suicida” resta inattivo. Se invece si dovesse scatenare l’aggressione delle cellule del donatore nei confronti dell’organismo del paziente, questa potrà essere bloccata iniettando un agente, di per sé inerte, ma attivante il gene “suicida” (AP1903).

La sperimentazione dell’infusione di queste cellule geneticamente modificate, nel primo trial in Europa, ha già arruolato più di 100 pazienti pediatrici. Di questi bambini, 20 erano affetti da gravissime forme d’immunodeficienza, incompatibili con la vita in assenza di un trapianto. Lo studio, coordinato dall’Ospedale Bambino Gesù, ha anche registrato l’adesione di molti prestigiosi centri Europei e Nord-Americani, che hanno riprodotto i dati ottenuti all’Ospedale romano per la prima volta. “I bambini trapiantati avevano già un rischio di mortalità molto bassa – spiega il professor Franco Locatelli, direttore del dipartimento di Oncoematologia pediatrica e Medicina trasfusionale del Bambino Gesù -. Adesso, questo rischio si è ridotto ulteriormente e, quindi, ci sentiamo confidenti a offrire questa importante alternativa di cura, il trapianto di midollo da genitore, anche a bambini a cui, pur non rappresentando una terapia salvavita, la procedura trapiantologica può migliorare di molto la qualità della vita. È il caso per esempio dei talassemici che prima di questa soluzione venivano trapiantati solo in caso di donatore compatibile al 100%”.