A Mezzogiorno: Non fermiamoci a “Gomorra”

Il successo della serie tv sta nella vittoria assoluta del male. E il bene?

Sono finiti i tempi del “Mulino del Po” di Bacchelli o dei “Promessi Sposi” di Manzoni o dei “Fratelli Karamazov” di Dostojevski. Troppa grazia per quella generazione di italiani che grazie alla televisione pubblica, con i suoi programmi di prima serata, formavano le loro anime alla cultura.

Oggi, le persone sono consumate dalla degenerazione del mezzo televisivo, come profeticamente, negli anni ‘70, aveva ammonito Pier Paolo Pasolini. Si identificano nel concorrente che tenta di vincere ogni sera mezzo milione di euro o sono costrette ad ammirare le gesta della mamma – spiegate da illustri psicologi, giornalisti e criminologi – che viene accusata di aver ucciso il suo bambino di otto anni. Può anche capitare di assistere alla violenza allo stato puro, quella che più di tutte – insieme al sesso – crea ascolti. È il caso dell’appuntamento che la sera del sabato, da qualche settimana, va in onda sulla terza rete della Rai. “Gomorra, Exceptionelle Série Noire”: l’ha presentata così la prima pagina di “Le Monde”, prima della messa in onda di Canal+. Da Sky è stata venduta in oltre 100 paesi e ha raccolto dovunque consensi di pubblico e premi: quello nell’ambito della 71a Mostra del Cinema di Venezia nelle Giornate degli Autori, i cinque premi al Roma Fiction Fest nel Concorso Fiction TV Edita Italiana e il Best Programme agli Eutelsat Tv Awards 2014. Un successo strepitoso, confermato dal “Guardian” (“Gomorra non è distante dalla Baltimora del superlativo The Wire o dalla Brooklyn di Quei bravi ragazzi di Scorsese”), da “Variety” (“è la risposta italiana a The Wire”); da “Der Spiegel” (“Dimenticate i Sopranos, ecco i Savastanos”), da “Frankfurter Allgemeine” (“I 12 episodi della serie segnano la fine di ogni romanticismo sulla mafia”).

Grazie all’abilità del regista e alla capacità degli attori, il prodotto – tratto, come il film, proiettato in oltre 200 sale italiane, dal best seller di Roberto Saviano – è tecnicamente perfetto e contiene l’intero armamentario della cultura mafiosa e camorristica. Con una clamorosa differenza rispetto a tutte le serie – italiane e straniere – di questo genere. Qui, viene rappresentato solo il male. Non c’è traccia del bene che si contrappone al male e non c’è neanche il male che si redime. C’è solo il male, punto e basta.

Roberto Saviano ha già risposto, tempo fa, a quest’obiezione. Ha scritto: “Tutti cattivi? Sì, in quel mondo non ci sono personaggi positivi, il bene ne è alieno. Nessuno con cui lo spettatore può solidarizzare, nel quale si può identificare. Nessun balsamo consolatorio. Nessun respiro di sollievo. Lo spettatore, in maniera simbolica, non doveva avere tregua, come non ha tregua chi vive nei territori in guerra. Quindi la visuale doveva essere unica. Nessuna salvezza per nessuno. Polizia, società civile, sono state messe in secondo piano perché così è nella testa dei personaggi che raccontiamo. Quindi nessuna via di fuga narrativa, nessuna quota di bontà pari a quella della cattiveria. Non una serie in cui ci sono ‘il cattivo irredimibile, il cattivo che si redime, un buono con delle ombre e il buono redentore’. Con la storia di sangue e la storia d’amore. Questa dialettica così classica e così scontata non serve più a un paese che è andato culturalmente oltre”.

È stata, quindi, una scelta quella di raccontare solo sparatorie e sangue, crudeltà e orrore. Si descrive così un mondo, quello criminale, come se quel mondo rappresentasse tutto il Sud. Non stiamo qui a difendere la realtà meridionale, che è fortemente inquinata. Ci limitiamo a raccomandare a coloro che su un canale del servizio pubblico hanno scelto di proporre, attraverso l’opera di Saviano, quel male, di ricordarsi che esiste un altro Sud, di cui il Paese non si deve vergognare, che ha diritto di cittadinanza almeno alla pari della “serie più amata dagli italiani”.