Nessuno sconvolgimento dottrinale nelle parole del Papa sul fine vita

Nessuna novità eclatante, ma solo una matura conferma di una linea Magisteriale costante e consolidata, che indica l’attenzione alla persona concreta come criterio centrale per un agire medico eticamente adeguato

Sono bastati pochi giorni perché si placasse il clamore delle varie e contrapposte “tifoserie” che, con tempestive e accalorate dichiarazioni, hanno gareggiato nel tentativo di spiegare a Papa Francesco cosa egli stesso volesse veramente dire col suo Messaggio (rilasciato lo scorso 16 novembre) ai partecipanti al Meeting regionale europeo della “World Medical Association” sulle questioni del “fine-vita”! Ahimè, e per di più, talora dimostrando di ignorare l’effettivo insegnamento – costante nel tempo e univoco nei contenuti – del Magistero cattolico sull’argomento.
Ad acque chete, dunque, e con la ferma intenzione di non ricadere nel goffo tentativo di spericolate esegesi su questo pronunciamento magisteriale (che ovviamente va letto insieme a tutti gli altri fin qui emanati sul medesimo tema), proviamo semplicemente a sottolineare alcuni punti forti che Papa Francesco ha voluto indicare in questa occasione.
Primo fra tutti, a nostro parere, la scelta di rimettere al centro del ragionamento bioetico – in questo caso riferito all’ambito della cosiddetta “proporzionalità delle cure” – la persona umana concreta, con le sue sofferenze e la sua vocazione originaria a perseguire il proprio bene integrale. Del resto,

non è superfluo ricordare che quello di “vita umana” è solo un concetto teorico, un’astrazione induttiva, che spesso utilizziamo per brevità linguistica nello sviluppo di un ragionamento.

Nella realtà, invece, essa non esiste, non si incontra per la strada o in una corsia d’ospedale. Chi esiste davvero, piuttosto, è la persona vivente, un soggetto con un nome, un volto, una storia e delle relazioni, un’esistenza individuale unica e irripetibile. Quello che chiamiamo “bene integrale” della persona, quindi, coincide con la realizzazione del suo essere considerato nella sua interezza, secondo le varie dimensioni che lo costituiscono. Nella visione cristiana, poi, non si può dimenticare che esso non si limita all’esperienza terrena, ma si apre ed è orientato al suo compimento pieno e definitivo nella vita eterna.
L’impegno di prendersi cura della vita e della salute, dunque, dovrà trovare i suoi criteri di giudizio e di discernimento operativo concreto in quest’orizzonte più ampio e corrispondente all’interezza della persona.
Ma c’è un altro aspetto che rivela pienamente l’importanza della centralità della persona di fronte al dovere morale di curare la salute: si tratta della

alleanza che si instaura tra paziente e medico.

Questo patto solidale, infatti, richiede che i due co-protagonisti, proprio in quanto persone che reciprocamente riconoscono e rispettano la dignità umana che li contraddistingue, collaborino strettamente – ciascuno secondo la propria responsabilità e competenza specifica – al raggiungimento (nella misura del possibile) del “bene integrale” del paziente, nella data situazione clinica. Entrambi, orientati al conseguimento del fine ultimo condiviso (l’obiettivo di salute che si propongono di raggiungere), rispondono delle singole scelte operative alla propria coscienza, senza mai pretendere di prevaricare quella dell’altro. A tal punto che, laddove le due coscienze dovessero entrare tra loro in un conflitto insanabile, sarebbe doveroso per entrambi interrompere quell’alleanza e ricostruirne un’altra sulla base di valori e finalità comuni.
Infine, un ultimo aspetto della centralità della persona che vorremmo sottolineare in questo contesto è il

pieno riconoscimento del paziente (o di chi lo rappresenta legittimamente) come responsabile principale ed ultimo del giudizio di “proporzionalità terapeutica”,

che conclude l’intero percorso valutativo necessario ad ogni intervento medico, facendo sintesi del giudizio medico di appropriatezza clinica e delle valutazioni soggettive, in relazione alla propria reale condizione esistenziale e alla comprensione del proprio “bene integrale”.
La ragione di ciò risiede nel fatto che il paziente, in quanto persona, in quanto “è” (e non “ha”) egli stesso quel bene integrale che deve essere promosso.
Nessuno sconvolgimento dottrinale, dunque, nessuna novità eclatante, ma solo una matura conferma di una linea Magisteriale costante e consolidata, che indica l’attenzione alla persona concreta come criterio centrale per un agire medico eticamente adeguato.