Mons. Camaiani e il battistero di San Giovanni in Fonte

L’aretino Pietro Camaiani (1519 – 1579) aveva intrapreso la sua carriera al servizio di Cosimo I de’ Medici, che nel 1546 gli conferì l’incarico di osservatore delegato a seguire i lavori del Concilio di Trento.

Da qui si trasferì un anno più tardi a Bologna, dove conobbe il Cardinale Giovanni Maria del Monte, il futuro pontefice Giulio III.

Questi divenne il suo protettore, affidandogli delicate missioni di natura politica.

Il 10 febbraio 1554 monsignor Camaiani venne nominato vescovo di Fiesole e Nunzio ordinario accreditato alla corte imperiale.

Nell’ottobre successivo, fu nominato alla nunziatura di Napoli e per la prima volta dovette interessarsi di una questione riguardante una contesa confinaria tra la Diocesi di Rieti e quella di Cittaducale, creata agli inizi del Cinquecento come un’enclave nel territorio reatino, attraversato dai confini fra la Santa Sede e il Regno napoletano.

Con la morte di Giulio III (1555), la fortuna politica del Camaiani declinò rapidamente: solo nel 1566, Pio V ebbe modo di conferirgli nuovamente un incarico prestigioso, inviandolo come Nunzio straordinario in Spagna, alla corte di Filippo II.

Nominato vescovo di Ascoli Piceno, fu richiamato in patria nel 1567.

La sua attività pastorale fu caratterizzata da un severo impegno nell’attuazione dei decreti conciliari e nella riforma del clero, perseguita mediante un’intensa e costante presenza, caratterizzata da frequenti Visite e Sinodi celebrati con regolarità.

I lusinghieri risultati ottenuti nel riordino della Diocesi ascolana indussero dapprima Pio V, successivamente Gregorio XIII ad affidare a monsignor Camaiani l’incarico di compiere una serie di Visite apostoliche nella vicina Umbria tra il 1573 ed il 1574.

Giunto a Rieti per il Natale 1573, il 29 dicembre sottopose ad ispezione la cattedrale ed il battistero di San Giovanni in Fonte.

Così il testo della Visita Apostolica, redatta dal vescovo Camaiani con la fida collaborazione del notaio Modestino Colletta, descrive la cappella di San Giovanni in Fonte presso il portico della cattedrale di Rieti aperta sul portico, delimitata appena da un cancelletto. Eppure, si tratta di una vera e propria chiesa parrocchiale che ha in cura d’anime circa cinquanta famiglie, dunque presumibilmente almeno trecento persone.

Viene pertanto decretata la chiusura della cappella mediante la costruzione di una parete: «in qua fieret porta onorifica horis debitis claudenda, ut aliquam templi pre se ferat effigiem, pro condigna missarum celebratione sacramentique baptismi administratione».

Quanto al fonte battesimale, il Visitatore ne apprezza la bellezza ma ne contesta l’eccessiva monumentalità e soprattutto l’apparato simbolico troppo paganeggiante: «etsi extrinsecus marmoreum bene exculptum ac laudandum, in reliquis valde improbandum pro usu sacramenti».

A margine è annotato: «Sacer fons baptismalis cuiusmodi sit quique defectus. Impedimentum sacri baptismi ex nimia fenestelle angus<tia> veniens. Impedimenta atque defectus sacri fontis. <Im>mundities ac vilitas vasculorum olei chrismatis et catechumenorum. Sacerdos ob suam segniciem reprehensus carceribus adiudicatus. Altaria ecclesie S. Ioannis quomodo ornando aliisque suis requisitis instruenda et a quibus ea fieri conveniat».

Il severo giudizio espresso dal Visitatore, estremamente critico verso la scandalosa scomodità del voluminoso coperchio che sigilla il catino e la sporcizia dei modesti contenitori degli olii consacrati, mentre consegna al carcere ecclesiastico l’ignavo canonico che fino ad allora aveva tollerato un simile stato di abbandono, non può esimersi dal riconoscere che il fonte marmoreo sia bene exculptum ac laudandum.

Certo, è ormai tramontato lo spirito della rinascenza che aveva informato l’anonimo scultore del XV secolo, condiviso dal colto committente, il cardinale Angelo Caprinica, vescovo di Rieti dal 1450 al 1468, che nel 1460 era stato creato cardinale da papa Pio II Piccolomini. Ma l’eleganza delle forme, il pregio indiscusso del modellato valsero a scampare dalla distruzione il prezioso fonte in cui la civiltà dell’umanesimo aveva saputo traslitterare nel significato cristiano il significante classicamente pagano di un apparato fatto delle onde sinuose di un pelago placato dai tridenti, in cui nuotano affrontati i delfini dal dorso arcuato.