La Misericordia e la letteratura

Nel corso dei secoli molti grandi scrittori hanno messo in luce l’amore di Dio verso gli uomini

“Lasciamo le novantanove pecorelle –rispose il cardinale: Sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione”.

È la famosa scena del XXIII capitolo, quella della conversione dell’Innominato, dei Promessi sposi. In realtà sarebbe meglio chiamarla della misericordia, manifesto letterario in anticipo su quel giubileo chiusosi ora nella sua ufficialità, ma che, ci si augura, continuerà nei cuori della gente. Manzoni, se lo si legge senza preconcetti, riesce a muovere i cuori di tutte le epoche, come perfino Goethe aveva capito lodando l’edizione del 1827: riesce a parlare il linguaggio di tutti e a tutti porta il messaggio della misericordia divina, che si manifesta negli uomini e attraverso gli uomini. E’ in questo modo che il bandito si arrende al cardinal Borromeo, ed è in questo modo che questa “resa” diventa credibile: perché preparata attraverso la conoscenza del cuore umano e la capacità, qui entra in ballo il genio della letteratura, di comunicare, attraverso la scrittura, quella conoscenza, innata e nel contempo raffinata dalla storia personale. La misericordia dunque è da sempre entrata a pieno diritto nella scrittura umana di tutte le latitudini, perfino nel “freddo” Shakespeare, che nella pagina finale di uno dei suoi ultimi capolavori, “La tempesta”, si raccomanda alla misericordia del lettore e a quella di Dio. Prospero è un mago che sceglie di abbandonare il suo grande potere di far apparire ogni cosa (le illusioni umane) e di entrare nella realtà per preparare la sua anima all’incontro con Dio. Goethe, nel suo capolavoro, “Faust”, descrive la vittoria della misericordia di Dio che invia i suoi angeli a contendere l’anima del protagonista ai demoni. Anche il Dio di un altro inglese, Chesterton, è il Dio che guarda con misericordia al vagare dell’uomo alla ricerca della propria strada. In quello che è il suo capolavoro, “L’uomo che fu giovedì”, l’uomo comune si chiede perché abbia dovuto soffrire così tanto: “Ebbene, io non sono riconciliato. Se tu eri l’uomo della stanza buia, perché mai eri anche Domenica (il cattivo del racconto, ndr), un’onta per la luce del sole? Se eri fin dal principio nostro padre e nostro amico, perché mai sei stato anche il nostro più grande nemico?”. Una voce gli risponde: “Chi può bere al calice a cui ho bevuto io?”.

È la risposta della sofferenza scelta coscientemente. La voce di un atto gratuito che ha significato condividere il calice amaro, non semplicemente consolare o tirar su d’animo. Una voce controcorrente, la corrente utilitaristica che pone come primo obiettivo il proprio bene. Lo aveva capito il padre della nostra letteratura, quando scrisse il canto terzo del Purgatorio: Manfredi, gran peccatore e nemico della Chiesa, cade ucciso in battaglia. Tutti lo sanno dannato, ma nell’atmosfera sospesa e commossa del canto, egli confida a Dante che “Orribil furo li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia,/ che prende ciò che si rivolge a lei”. Il re normanno è salvo perché in punto di morte si affidò alla misericordia di “quei che volentier perdona”.

La misericordia degli uomini e di Dio si intreccia nella letteratura e diviene umanità dolente, carne sofferente e spirito in tempesta. Chi pensasse che nell’inchiostro dei grandi la misericordia sia stata una semplice formalità quasi dogmatica, o una consolazione, si sbaglierebbe. Essa appare all’orizzonte della scrittura solo dopo il dolore, il naufragio, la perdita. Sangue del sangue degli uomini, non abbellimento di un dolore senza senso.