Migranti al porto di Bari: la macchina organizzativa ha funzionato, ma le comunità cristiane devono maturare nell’accoglienza

Le persone immigrate non possono essere tradite infinite volte. Così come è giusto vigilare su coloro che hanno il compito di garantire il buon funzionamento e il raggiungimento di un livello di assistenza e integrazione. Mi riferisco alle varie cooperative e a quanti sono chiamati in causa per questo prezioso lavoro. Qui deve essere richiesto il massimo della serietà e della professionalità. Ogni leggerezza poi si paga. Come comunità cristiana locale vogliamo continuare a dare il nostro contributo. Ce la metteremo tutta perché la vita di questi fratelli e sorelle ci è cara. Come quella di Gesù.

La macchina organizzativa realizzata dalla rete Istituzionale di concerto con le realtà del volontariato locale è riuscita, a mio parere, a reggere al meglio allo sbarco di sabato 15 luglio presso il porto di Bari. 639 persone scese dalla nave militare Echo. Tra loro tante donne, una ventina di bambini, la più piccola di 3 settimane. Tanti minori. Li si riconoscerà tutti, impedendo che diventino preda di organizzazioni dedite allo sfruttamento? Quello dei minori mi sembra una delle inquietudini più grandi, un dramma nel dramma. Come Caritas diocesana di Bari-Bitonto siamo stati presenti con una dozzina di volontari dall’inizio dello sbarco (9.20) sino alla fine (ore 17). Una lunga fila di persone che pur provate dal viaggio raccontano, senza parlare, di una grande dignità. Provengono dalla Nigeria, dal Niger, dal Mali, dal Gambia, dalla Costa d’Avorio, dalla Tunisia, ecc. Siamo stati accanto a loro nell’offrire un bicchiere d’acqua, nella distribuzione del vestiario, di un paio di ciabatte. Due persone avevano ferite d’arma da fuoco. Secondo voci venute dal presidio medico pare che più del 10% di loro riportasse segni di violenza subita durante il viaggio o poco prima. Dolore a dolore.

Eravamo lì assieme a Istituzione e altre realtà di volontariato. Eravamo lì per dire la vicinanza della Chiesa locale di Bari-Bitonto e del nostro arcivescovo, mons. Francesco Cacucci, sempre attento alla vita e alle storie di questi nostri fratelli.

Ci auguriamo che le nostre comunità cristiane possano maturare sempre più e, a loro volta, aiutare a maturare una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione che si fa amicizia.

La prima sfida, forse la più difficile, è culturale.

Abbiamo il dovere di raccontare la vita di questa gente. Sono nostri fratelli! È un lavoro “dal basso” che ovviamente deve coniugarsi in tempi brevi con un’azione politica di ampio raggio che preveda scelte sagge, intelligenti, capaci di vedere in lontananza, mettendo da parte visioni ideologiche e di corto respiro che fanno male agli immigrati e agli italiani e a tutti i poveri. Penso sia chiamata anche in causa l’informazione perché non si ceda mai a quella diminuzione di umanità in cui spesso rischiamo di essere trasportati vendendoci a logiche di basso profilo. Se solo si raccontasse la verità di questa gente, se si ascoltassero per davvero le loro lacrime!

Le persone immigrate non possono essere tradite infinite volte.

Così come è giusto vigilare su coloro che hanno il compito di garantire il buon funzionamento e il raggiungimento di un livello di assistenza e integrazione. Mi riferisco alle varie cooperative e a quanti sono chiamati in causa per questo prezioso lavoro. Qui deve essere richiesto il massimo della serietà e della professionalità. Ogni leggerezza poi si paga.
Come comunità cristiana locale vogliamo continuare a dare il nostro contributo. Ce la metteremo tutta perché la vita di questi fratelli e sorelle ci è cara. Come quella di Gesù.

Vito Piccinonna